il Giornale, 6 novembre 2021
Quando il sindacato era rivoluzionario
Il sindacalismo rivoluzionario italiano del primo Novecento annoverò tra le sue file personalità di grande rilievo intellettuale e politico, da Arturo Labriola a Enrico Leone, da Walter Mocchi ad Angelo Oliviero Olivetti, da Sergio Panunzio ad Agostino Lanzillo e Paolo Orano, e via dicendo. L’essenza di questo movimento è stata tratteggiata con efficacia da Renato Melis in un bel volume antologico pubblicato originariamente alla metà degli anni Sessanta e riproposto ora con il titolo Lavoro e nazione: sindacalisti italiani (Oaks Editrice, pagg. XII-378, euro 25) a cura di Gennaro Malgieri: un volume che ancora oggi, a distanza di molti decenni, appare fondamentale per un primo e corretto approccio alle idee di quel movimento.
Scrive dunque Melis: «nato in seno al socialismo e decisamente antistatalista; marxista e revisionista del marxismo; politico ed antipolitico insieme, nelle sue finalità e nei suoi atteggiamenti, nella sua teoria come nella sua pratica, il sindacalismo si annuncia subito come una dottrina insieme affascinante e difficile». E precisa ancora: «è politico perché tende a una profonda trasformazione sociale e la vuole ottenere con la lotta più strenua ed aperta; è antipolitico ed antiparlamentare, in quanto vede nel sindacato, libero da ogni soggezione di partito, lo strumento che le forze del lavoro debbono impiegare per la loro autoeducazione, per il loro trionfo sulle forze avverse e per il finale autogoverno, in cui dovrebbe attuarsi fino a sparire ogni sostanziale differenza tra governati e governanti, col massimo di libertà nel massimo di giustizia». È il ritratto, rapido ed efficace, di un movimento di pensiero, prima ancora che di un movimento politico, che Melis definisce «sindacalismo allo stato puro» e che, sulle orme di Georges Sorel, vedeva nello sciopero generale un «mito» in grado di catalizzare le energie del proletariato indirizzandole a fini ricchi di alta moralità.
Il sindacalismo rivoluzionario nacque proprio con Sorel, il grande pensatore francese autore di opere come L’avvenire socialista dei sindacati o le Considerazioni sulla violenza o anche Le illusioni del progresso. Questi – cui Pierre Andreu dedicò una splendida, suggestiva e simpatetica biografia dal titolo Sorel il nostro maestro (Oaks, pagg. X-300, euro 25) – ebbe maggiore fortuna in Italia che in Francia. A tale fortuna contribuì anche l’amicizia con Mario Missiroli che lo volle come collaboratore nel quotidiano che allora dirigeva. L’influenza di Sorel, poi, e del sindacalismo rivoluzionario sul giovane Mussolini e sulla sua scelta politica di rottura con il partito socialista è, ormai, ben documentata.
Il sindacalismo rivoluzionario, germinato dal dibattito internazionale sul «revisionismo» del marxismo, fu agli inizi un elemento dialettico interno al movimento socialista ma si trasformò ben presto in opposizione radicale al socialismo. In verità la derivazione marxista del sindacalismo rivoluzionario è quanto mai discutibile. I sindacalisti proponevano, sì, il metodo rivoluzionario, auspicavano, sì, una rottura violenta, ma la loro formazione culturale e intellettuale era tutt’altro che marxista. Si riallacciavano anzi – proprio sotto l’influenza di Sorel e dell’intuizionismo di Henri Bergson, del contingentismo di Émile Boutroux e del volontarismo di Maurice Blondel – alla reazione contro il positivismo e il materialismo. Non si interessavano solo di rivendicazioni economico-salariali, ma puntavano soprattutto sull’educazione del proletariato, sulla necessità di fornirgli una coscienza politica che favorisse il crollo di una società della quale il socialismo riformista e la debolezza borghese mostravano la decadenza.
Nel caso italiano, poi, l’estrazione meridionalista della maggior parte dei sindacalisti puri o teorici, sottolineata da Antonio Gramsci nelle sue Note sul problema meridionale, poneva, a ben vedere, limiti sulla figliolanza marxista del sindacalismo rivoluzionario. L’estrazione meridionalista derivava non tanto dal fatto che il Mezzogiorno non fosse in grado di usufruire della politica riformista, quanto dal fatto che, a causa dell’analfabetismo e della scarsa industrializzazione, il marxismo non aveva possibilità di attecchirvi. L’arretratezza economica e la difettosa evoluzione industriale avevano, inoltre, lasciato permanere forme associative e corporative medievali cui i sindacalisti rivoluzionari, sia pur inconsciamente, si riallacciavano.
Sempre Gramsci sottolineò che «l’essenza ideologica del sindacalismo» era «un nuovo liberalismo più energico, più aggressivo, più pugnace di quello tradizionale» e precisò: «se osservate bene, due sono i motivi attorno ai quali avvengono le crisi successive del sindacalismo e il passaggio graduale dei sindacalisti nel campo borghese: l’emigrazione ed il libero scambio; due motivi strettamente legati al meridionalismo». La citazione gramsciana – opportunamente ricordata da Melis nel suo saggio che ricostruisce con finezza la genesi e lo sviluppo del sindacalismo rivoluzionario nel contesto del dibattito internazionale – pone una questione apparentemente stupefacente, ma in realtà meno peregrina di quanto si possa pensare, tant’è che uno dei più importanti esponenti del sindacalismo rivoluzionario e grande giurista, Sergio Panunzio, già nel 1906 aveva scritto che il sindacalismo era «un liberalismo e un individualismo di gruppi e di sindacati, la nuova incarnazione () dell’eterna idea liberale».
A mostrare l’incompatibilità tra socialismo e sindacalismo intervenne nel 1911 la guerra di Tripoli, che segnò una svolta nella storia d’Italia e determinò l’avvicinamento tra nazionalisti e sindacalisti. Essa vide la maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari schierarsi per l’intervento, mentre i socialisti si battevano per la neutralità, ridotti al ruolo, per usare una colorita espressione di Angelo Oliviero Olivetti, di «cagnetta di madama democrazia». Seguì la campagna per l’intervento nella Grande Guerra, dove i sindacalisti ebbero un ruolo chiave nella «conversione» di Mussolini, nel fargli abbandonare cioè la posizione neutralista. Poi ci furono l’adesione al fascismo e il contributo alla elaborazione teorica del corporativismo. Tuttavia l’adesione al fascismo non fu priva di riserve e spunti polemici: Panunzio, per esempio, ironizzò sulla Camera dei fasci e delle corporazioni chiamandola «Camera dei fasci e delle commissioni» e, d’altro canto, Olivetti, malgrado l’antica e profonda amicizia personale con Mussolini, rifiutò sempre la tessera del partito.
In fondo, il sindacalismo rivoluzionario italiano, il sindacalismo «allo stato puro» di cui discorre Melis, era una dottrina politica autonoma fondata sul sindacato unico di categoria giuridicamente riconosciuto alternativa alla democrazia parlamentare. Una dottrina che non si identificava appieno con il fascismo.