Corriere della Sera, 5 novembre 2021
Intervista a Memo Remigi
di Giovanna Cavalli
Il cantante: con Barbara D’Urso vivevo in un monolocale
S ul serio fa la ruota? Rincorsa, mani a terra, slancio, giro in aria completo e oplà, in piedi? A 83 anni?
«Certo, anche se preferisco chiamarlo salto mortale, data la veneranda età. La ruota è la mia unità di misura del tempo che passa: finché non mi schianto sul pavimento significa che va tutto bene, che non sono ancora un rottame».
Complimenti.
«È divertente, sa? Prima lo facevo spesso, quando felice e contento portavo a spasso nei prati il mio amato cagnolino Bacio, tesoro caro che purtroppo non c’è più. Tanto, male che andava, sarei caduto sull’erba. Ci ho riprovato giusto qualche giorno fa, in palestra, sotto lo sguardo mi pare un filo preoccupato della mia maestra di ballo».
C’è da capirla.
«Sarà la mia arma segreta per colpire la giuria», promette Memo Remigi, con la stessa serafica naturalezza con cui da oltre sessant’anni fa scorrere le dita sul pianoforte, interprete, autore e intrattenitore tutto riccetti, occhi azzurri, garbo, giacca e cravatta, icona di un celebre duetto vintage con Topo Gigio («Che tipo di topo», 1979). Almeno fino a tre anni fa, quando è stato arruolato come insospettabile provocatore nella banda di matti di Zoro/Diego Bianchi, a Propaganda Live su La7, prezzolato per scherzi telefonici da quindicenne o spedito a citofonare ai portoni nei quartieri popolari di Roma con i pretesti più insensati, nome di battaglia Como Shapira (non scervellatevi, non significa assolutamente nulla), impresa più folle: cercare di convincere un’anziana pensionata delle doti rinvigorenti e afrodisiache del vaccino. Dalla scorsa stagione poi è ospite fisso, tra chiacchiere e note, nel salotto diurno di Oggi è un altro giorno con Serena Bortone («Dovevo restarci poche ore, sono sempre lì») e adesso pure scatenata star danzerina del sabato sera di Raiuno per Milly Carlucci a Ballando con le Stelle edizione 2021, in coppia con la bionda e russa Maria Ermachkova, che dovrà vigilare sulle sue smanie acrobatiche tra un boogie e una bachata.
Intanto balla e se la spassa.
«Oh sì, mi sono riscoperto un ragazzino. La parola “ormai” deve uscire dal vocabolario di noi anziani, la vita va vissuta a pieno fino all’ultimo».
Milly l’ha messa a dieta.
«Mai stato grasso. Mi ha solo suggerito di mangiare sano». Sospira. «Risottino in bianco, pescetto, pollo... addio cucina romana. Ma è una questione di sopravvivenza. In sala prove, dietro gli specchi, ci sono le telecamere, perciò le luci sono al massimo, fa un caldo tremendo, se dovessi digerire la carbonara schiatterei all’istante e preferirei rimandare il momento».
Dura imparare i passi?
«Non più di tanto, dai, d’istinto mi muovo abbastanza bene, sarà tutta la pratica che ho fatto da ragazzino, al collegio Gallio di Como, dai padri somaschi, quando entrai nella squadra di ginnastica ritmica del professor Foppiani: in fila per due, scarpette bianche, calzoncini bianchi, maglietta bianca, tutti maschi, purtroppo».
Cosa prevedeva l’allenamento del prof Foppiani?
«Attrezzi, corpo libero, cavallo. In istituto c’era una sala con un pianoforte, ho cominciato così, strimpellando canzoncine per i miei compagni. La domenica, tornato a casa, tenevo dei bei concertini con mio padre, io al piano e lui alla fisarmonica. In classe ero il buffone del gruppo, storielle, scherzetti, spettacolini. Alla fine, invece di mettermi le note, i preti mi arruolarono come presentatore per le recite scolastiche».
Memo è il diminutivo di...?
«Di Emidio, come il nonno paterno, era uno spasso, un birichino, infatti ho avuto almeno due o tre nonne... quando gli presentavo le fidanzatine cercava sempre di sbirciargli le gambe sotto le gonne. L’ho tenuto anche da grande, Emidio è troppo impegnativo, viene dal greco, significa mezzo dio, ma non ho mai capito quale fosse la mia metà divina».
Suo padre Ercole sperava che con l’età si ravvedesse.
«Papà possedeva una ritorcitura di filati con quaranta operai, mi avrebbe voluto come direttore dello stabilimento, io invece non ne volevo sapere. Lascialo fare, lascialo sognare, gli ripeteva mamma Maria, il mio angelo».
E così è stato.
«L’estate si andava in vacanza a Santa Margherita Ligure, all’hotel Helios, con un grande salone delle feste e un pianoforte. Ci portavo le ragazzine che rimorchiavo in spiaggia. Ho scritto una canzone per te... in realtà era sempre quella, cambiavo giusto il nome e la rima».
Finché un giorno...
«Avrò avuto diciassette anni, incontrai il maestro Giovanni D’Anzi, quello di O mia bela Madunina, che aveva una villa in collina a Santa Margherita. Era seduto a leggere il giornale a un tavolino dell’albergo, mi sentì suonare. Naturalmente stavo tacchinando una nuova conquista cantando Rossella mia... o Francesca mia... Si avvicinò e mi chiese cos’era quel motivetto e se ne conoscevo altri. Certo, li ho scritti io, risposi. E gliene accennai qualcuno».
E dopo che accadde?
«Niente. Passò quasi un anno. Poi mi cercò. Parlò prima con papà: mi mandi suo figlio a Milano, ha talento. Lui non voleva saperne, lo convinse mamma. Mi presentai nel suo ufficio in Galleria del Corso. Appena entrato, il maestro D’Anzi mi mandò subito al piano. Suonami qualcosa».
E da lì non ha più smesso.
«Un pomeriggio del 1963, giocherellando con il grande paroliere Alberto Testa, mezzo matto come me, cominciai a canticchiare... sapessi che cretino, scoprirsi innamorati a Torino… sapessi che pazzia, trovarsi innamorati a Pavia... e via di rima in rima, finché non intonai: sapessi com’è strano, sentirsi innamorati a Milano. Alberto saltò su. Ecco questa sì che è bella. Le altre parole mi vennero di getto: senza fiori, senza verde, senza cielo, senza niente...».
«Innamorati a Milano», il suo superclassico.
«Approdai alla Ri-Fi Records, dove c’erano già Mina, Iva Zanicchi, Fred Bongusto, Fausto Leali. Nel 1964 partecipai a Un disco per l’estate, si votava con le cartoline, le compravano tutte le case discografiche, ma la mia non aveva soldi da buttare, perciò non mi piazzai nemmeno. Ho fatto tanta gavetta, tante quindicine».
Che sarebbero?
«Quindici giorni qua, quindici là, giravo l’Italia con un furgoncino e la scritta “Memo Remigi e il suo complesso”. Ho suonato nei paesini più sperduti, senza palco, senza amplificatori, una volta finimmo accanto a un pollaio, con le galline in sottofondo: co-co-co-coccodè».
Nel 1966 perse il posto al Festival di Sanremo.
«Avevo scritto due brani, La notte dell’addio per la Zanicchi e Io ti darò di più che dovevo cantare in coppia con la Vanoni, ma poi Gianni Ravera mi disse che c’era da sistemare la Berti. Tranquillo, ci riprovi l’anno prossimo. Così fu. Mi presentai con Sergio Endrigo, cantammo Dove credi di andare e infatti non siamo andati da nessuna parte».
Però a diritti d’autore non è andata male, no?
«Soprattutto con Io ti darò di più, l’hanno tradotta persino in giapponese, tremenda».
Lei, Iva, Ornella e Orietta siete ancora qui.
«Non ho avuto quel successo da fuochi d’artificio, però ho dato al pubblico la mia semplicità, la spontaneità, l’onestà e in cambio sono stato molto amato. Sono rinato con Propaganda Live, Diego è un genio, non mi ha chiesto di cantare, ma di essere quello che sono, non solo un pianista in giacca e cravatta, finalmente mi hanno scoperto anche i giovani. Il mio ultimo disco è un reggaeton, ComoShapira, per Clodio Music, in duo con Nartico, cantautore indie di 21 anni».
Con sua moglie Lucia, scomparsa a gennaio, siete stati sposati per 55 anni, dal 1966 al 2021, con qualche intermezzo e un divorzio.
«Però poi ci siamo risposati, con nostro figlio Stefano come testimone. Ci siamo amati moltissimo, per me è stata fidanzata, sposa, amante e mamma, tutto».
La soffiò ad un suo amico.
«Eravamo a un torneo di golf a Sanremo – ero piuttosto gagliardo sul green – e il mio amico mi disse che aveva invitato una ragazza bellissima appena conosciuta. Dai, stasera andiamo a prenderla in stazione. Comprai un mazzo di fiori e appena la vidi cominciai subito a fare il tacchino. A fine serata avevo già in tasca il suo numero di telefono, il primo appuntamento fu a Milano, in Galleria, tra migliaia di persone. Innamorati a Milano parlava di noi».
Da fidanzati la accompagnava nelle sue prime serate.
«Papà mi aveva regalato una Giulia per il diploma di ragioneria, d’estate partivamo per la Riviera ligure o Toscana e Lucia entrava nei locali o negli alberghi proponendo uno scambio: voi ci date vitto e alloggio e il mio fidanzato canta gratis. Così ci pagavamo le vacanze».
Ad un certo punto però lei ebbe...
«Una scivolata d’ala».
Con una giovanissima Barbara D’Urso.
«Era appena arrivata a Milano, ingenua, inesperta della vita, sono stato il suo mentore, le ho insegnato un po’ di cosine, l’ho protetta da certi ambienti, anzi l’ho salvata. Avevo 39 anni, lei 19».
Sua moglie la cacciò di casa.
«E ha fatto bene, ha capito che non era una storia da una notte e via... Io e Barbara abitavamo in un monolocale vicino a piazza Napoli, la portavo con me nelle tv private, le spiegavo come muoversi, come parlare, molti miei colleghi cercavano di aiutarla, sapendo che era la mia ragazza. Pippo Baudo la prese a Domenica In».
Durò quattro anni.
«Finì quando lei mi disse che voleva un marito e dei bambini, io avevo già dato, era giusto lasciarla libera. E tornai da mia moglie».
L’ultima cosa che le ha detto Lucia?
«Non a me, a mio figlio: prenditi cura di papà»