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 2021  novembre 05 Venerdì calendario

Intervista a Peter Brook

 Un mondo di consonanze lega a Shakespeare Peter Brook, il quale lo frequenta da decenni. Il loro dialogo è sfociato in capolavori scenici che hanno fatto storia. Di volta in volta il regista pare sospinto da un sentimento che non è riduttivo definire amicizia.
Si può essere amici di Shakespeare? Brook lo è. Non s’inginocchia di fronte a lui, ma punta al suo umanesimo perennemente attuale.
«Shakespeare respira nel presente», afferma il massimo metteur en scène vivente, leggenda senza confronti per ricchezza di percorso e longevità creativa. A 96 anni porta in Italia Tempest Project, nuova lettura de La Tempesta che l’8 e il 9 novembre sarà al Teatro Cucinelli di Solomeo per il Teatro Stabile dell’Umbria. Montato da Brook a fianco di Marie-Hélène Estienne, lo spettacolo s’affida ad attori di nazionalità diverse (Alex Lawther, Sylvain Levitte, Paula Luna, Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Ery Nzaramba). Tutto avviene nel segno dell’indole “amalgamante” di questo sapiente miscelatore di razze e culture.
Brook continua ad essere attivo nel Théâtre des Bouffes du Nord, sede del Centre International de Créations Théâtrales fondato a Parigi nei primi anni Settanta. Da tale postazione il regista inglese rilascia al telefono quest’intervista esclusiva.
Lei è portavoce della genialità del semplice: cerca l’essenza dei testi. Anche stavolta ci attende un evento spoglio e depurato?
«Basta poco. Gesti, corpi. Oggetti ridotti al minimo indispensabile.
In Shakespeare ogni frase ha una risonanza che trova in sé la propria ragione d’essere. Quando si esprime parla di noi così come siamo oggi. Non servono immagini proiettate né costumi fastosi né scenografie invadenti. Per lo stesso motivo la modernizzazione dei suoi play non ha alcun senso. Si può modernizzare la musica di Mozart? È sufficiente suonarla bene e ci dirà cose in sintonia con noi».
Siamo anche dentro la fiaba de “La Tempesta”?
«Certo. Il termine che più attraversa l’opera è libertà. Filo rosso non casuale. La Tempesta fu l’addio alle scene di Shakespeare e la commedia si conclude con l’aggettivo “libero”. Ultima parola che scrisse in vita. Il suo messaggio».
In quale prospettiva la libertà è la chiave della “Tempesta”?
«L’urgenza di liberazione appartiene a ogni figura del play e la soluzione vera sta nell’amarsi. Il duca Prospero ha subìto il tradimento del fratello, bramoso di potere. Con arti magiche Prospero scatena la tempesta per vendetta. Solo con un cenno della mano può agitare il vento e le onde. Ma la voglia di vendicarsi lo imprigiona ed è l’amore ad affrancarlo. La figlia Miranda, innamoratasi di un suo nemico, lo guida al perdono degli usurpatori.
Come può non evocare situazioni di sofferenze che conosciamo l’umanità di una figlia che chiede al padre di pensare al patimento di vite umane in pericolo sulle navi in mare?
Lanciando via per sempre la sua bacchetta magica, Prospero torna ad essere una persona come noi spettatori. Narrando una storia buffa e straordinaria, Shakespeare ci commuove in quanto crea esseri umani. Così è il teatro: una comunione che affratella».
Anche il selvaggio Calibano e lo spiritello Ariel possono essere considerati nostri contemporanei?
«Calibano non è un personaggio negativo come si tende a raffigurarlo. Radicato nell’isola della Tempesta, s’infuria quando gli stranieri colonialisti occupano il suo territorio. Spesso i registi lo rendono grottesco, mentre Shakespeare lo intese come lo sconosciuto oppresso dagli invasori. Non un mostro, ma una vittima. Ariel, che eccita altrettanto l’estro dei costumisti, è uno spirito dell’aria che non esige marchingegni per dimostrare la sua natura. Non è qualcuno da collocare in un’epoca. È se stesso».
Cos’è il teatro per Brook?
«Una dimensione che supera le bugie della politica permettendoci di specchiarci l’uno nell’altro come uguali. Un momento trascorso insieme. Essere uniti proprio ora, adesso».