la Repubblica, 5 novembre 2021
Intervista a Wael Al Awar, l’architetto di Dubai che fa case di sale
La casa di sale nel deserto ha vinto, come noto, il Leone d’oro alla Biennale di Venezia. A poche settimane dalla chiusura della rassegna in laguna (fino al 21 novembre) e all’indomani di una situazione politica che sta ridisegnando gli equilibri del Medio Oriente, anche l’architettura ha registrato l’avvicinamento del mondo arabo all’occidente. Per gli Emirati Arabi, appena lodati al G20 per la rapida azione anti-Covid, non è una novità; ma in seguito alla decisione di accogliere la richiesta d’asilo del presidente afghano in fuga da Kabul, il premio ha confermato il loro ruolo di cerniera diplomatica e culturale fra i lacci della tradizione e le ambizioni di modernità del Golfo. «L’architettura è politica perché deve affrontare temi giganteschi come equità sociale e sostenibilità ecologica» dice Wael Al Awar l’architetto di Dubai curatore con Kenichi Teramoto del padiglione nazionale all’Arsenale che ha convinto una giuria blasonatissima, presieduta da Kazuyo Sejima, vincitrice del Premio Pritzker e già alla regia della Biennale 2010, a consegnare al suo team la statuetta con una motivazione basata sulla stessa dicotomia: «un modello costruttivo capace di legare artigianalità e tecnologie avanzate».
Partiamo del titolo “Wetland”, zona umida, cosa significa?
«Se dico Emirati Arabi, lei pensa a sabbia e deserto. In realtà, il 5% della nostra terra è umida e salata. Cercavamo un materiale da sostituire al cemento responsabile per l’8% delle emissioni di CO2 a livello globale. Gli Emirati ne producono per il 3%; cifra mostruosa. Studiando le nostre saline, patrimonio Unesco, abbiamo scoperto che i loro strati di cristallo formano quelle famose croste resistenti nelle zone paludose, nelle aree bagnate, le “wetland”, grazie alla presenza di un legante naturale al magnesio con cui si può creare un cemento ecologico».
Ma il sale non fa male all’edilizia perché corrode?
«Dipende dal tipo. In passato, si usava il sale per curare l’asma, la polmonite o le malattie respiratorie.
Il sale offre ambienti sani per il corpo umano, basta pensare alle SPA. È corrosivo per l’acciaio, dunque il nostro cemento sarà rinforzato da fibre naturali estratte dalle piante».
La pandemia ha fatto riflettere tutti su un ritorno alle origini. Vale anche per voi?
«La tradizione “vernacolare” è il nostro futuro. Sono molto critico nei confronti del moderno, dei materiali industriali, delle città che crescono uguali in tutto il mond,o tanto da non sapere più se sei a Tokyo o a New York. Ogni architettura regionale deve valorizzare le proprie risorse. Ritornare alla terra. Perciò ci siamo ispirati, anche negli spazi dell’abitare, alle nostre antiche case in corallo».
Nell’immaginario comune, la
vostra architettura però è quella di Dubai. Finita l’era dei grattacieli?
«È una storia degli anni Novanta manipolata da interessi economici, business e status symbol. È bastato il covid a far crollare il castello.
Durante il lockdown avevo amici chiusi nelle torri al settantesimo piano, con le finestre sigillate e l’aria condizionata, che vivevano nel terrore. Sigillati come i polli negli allevamenti».
Lei dove vive?
«In campagna, in una casa di un piano solo, che aderisce al suolo, respira aria fresca e si mescola al paesaggio».
Molti dicono che la Biennale di quest’anno sia stata tutta materiali e niente architettura. Cosa ne pensa?
«Io sono un costruttore, un uomo di cantiere, non un accademico.
Progettiamo in base ai materiali, sui modelli, sui prototipi. La responsabilità dell’architetto in tempi di crisi ambientale è quella di ragionare sui prodotti: quelli bioattivi, quelli traspiranti, quelli più igienici».
Per cui come avete risposto al titolo generale della Biennale, How will we live together? Come vivremo insieme?
«La domanda vera è come vivremo noi insieme alla madre terra? Siamo ormai disconnessi dal nostro pianeta, lo stiamo consumando tutto e la crescita esponenziale della popolazione è allarmante; facciamo un passo indietro e, invece di costruire, ricicliamo».
Il ruolo dell’architettura in tutto ciò?
«Deve finirla di fare design ed deve essere militante. Studiare spazi che rispondano ai problemi della sostenibilità, delle comunità e delle migrazioni. Dare forma a luoghi che siano specchio di un senso rigenerato del nostro vivere sulla terra».
In fatto di attualità, cosa pensa dell’accoglienza offerta al presidente dell’Afghanistan?
«Penso in generale che qualsiasi forma di aiuto si possa dare sia necessaria e che ogni atto di offesa a innocenti, donne e bambini, non possa essere accettato da nessuna società civile».
È già stato all’Expo di Dubai?
«Sì e anche con un progetto per il padiglione italiano. Ho partecipato ai talk organizzati dal Politecnico di Milano proprio sul tema dei nuovi materiali, in bilico fra tecnologia e biodiversità, naturale e artificiale, vegetale e sintetico, ma calcolati per avere sempre una vita oltre la vita».