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 2021  novembre 05 Venerdì calendario

La chiamata alle armi di Abiy Ahmed


Il Paese della Pace e del record mondiale di alberi piantati in poche ore è in guerra con se stesso. Il conflitto civile iniziato il 3 novembre del 2020 nel Nord dell’Etiopia, è giunto alle porte della capitale, Addis Abeba. Il premier etiope, Abiy Ahmed, lunedì ha dichiarato lo stato d’emergenza per sei mesi e ha invitato la popolazione di Addis a imbracciare le armi e «stanare il nemico ovunque si annidi». La misura estrema del Nobel per la Pace risponde a un pericolo imminente: i ribelli tigrini, a fianco dei vecchi nemici dell’etnia oromo dell’Esercito di liberazione Ola, tutti classificati terroristi dal governo federale, hanno conquistato due città nevralgiche, Dessiè e Kombolcha, a 300 chilometri dalla capitale, sulla strada che porta a Gibuti. E ieri hanno fatto sapere di essere ancora più vicini ad Addis. Un anno fa, il Tplf, il Fronte di liberazione del Tigray, ha attaccato un deposito federale di armi nella regione tigrina. Il giorno dopo, Abyi, aiutato dall’esercito eritreo di Isaias Afewerki, ha sferrato l’offensiva sul Tigray, isolandolo dal mondo e dando il via a una delle crisi umanitarie più drammatiche di questo secolo: migliaia di morti, milioni di sfollati, carestia, abusi, torture e stupri. La responsabilità? Di tutti. Ce lo dice un rapporto Onu pubblicato ieri su quanto accaduto in questi 365 giorni, nell’assenza di media sul posto a cui è stato vietato l’accesso: «È ragionevole credere che tutte le parti del conflitto abbiano commesso violazioni del diritto internazionale e umanitario fino ad anche crimini di guerra e contro l’umanità». Un conflitto, stando alle parole di Michelle Bachelet, Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, segnato da “una brutalità estrema”. E brutali sono state le parole del premier Abiy alla commemorazione dei morti del 3 novembre: «Seppelliremo questo nemico con il nostro sangue e le nostre ossa e renderemo di nuovo alta la gloria dell’Etiopia. La fossa che verrà scavata sarà molto profonda. Sarà dove è sepolto il nemico, non dove l’Etiopia si disintegra». Discorso postato anche sui social e rimosso da Facebook. Da parte tigrina, accusata dal governo federale di combattere al fianco di “uomini bianchi e neri stranieri”, le dichiarazioni non sono meno violente: «Non lasceremo nulla di intentato nella caccia ai criminali che hanno fatto dell’uccisione e della mutilazione di civili innocenti la loro vocazione », ha scritto due giorni fa su Twitter Getachew Reda, il portavoce Tplf. Che specifica anche: «Non vogliamo prenderci la capitale. Vogliamo che il governo ritiri lo stato d’assedio dalla nostra regione. I nostri bambini stanno morendo».La capitale, riferiscono testimoni alla Reuters, è tranquilla. A parte l’allarme lanciato dall’ambasciata americana: «Suggeriamo ai cittadini americani di non venire in Etiopia. E a quelli che ci vivono, di pensare di andarsene». Analisti del Corno d’Africa danno il premier per spacciato e sulla via dell’esilio.Ieri è atterrato nella capitale etiope Jeffrey Feltman, inviato speciale Usa nella regione. Dopo il suo incontro con il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki, il governo etiope ha postato su Facebook una dichiarazione che non lascia presagire giorni facili per il popolo etiope: «Questo Paese non si arrende alla propaganda straniera! Stiamo conducendo una guerra esistenziale!». Ci si augura che la vena filosofica di Abiy ritorni al suo vecchio mantra politico, quello che sedusse il mondo, “medemer”: il fare assieme.