La Stampa, 5 novembre 2021
Anche la pubblicità deve essere gender free
Identità di genere. Sono tre semplici parole ma hanno il potere di creare tempeste. La destra le detesta. Se potessero i cattolici più conservatori e i movimenti per la vita le cancellerebbero da ogni documento ufficiale. Con loro enorme sconcerto sono riapparse in un provvedimento diventato legge. Ieri pomeriggio l’Aula del Senato ha approvato in via definitiva il decreto Infrastrutture e Trasporti nonostante Lega, Fratelli d’Italia e le associazioni per la vita da giorni stessero provando a attirare l’attenzione su un punto del provvedimento, dal loro punto di vista una pericolosa minaccia. È il comma 4 bis dell’articolo 1 introdotto con un emendamento approvato alla Camera, che stabilisce il divieto con affissione sulle strade ma anche su mezzi pubblici o su mezzi privati di pubblicità che abbiano contenuti con «messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche». Sono lì le tre discusse parole che la destra non tollera, in un emendamento firmato dalle deputate Raffaella Paita di Italia Viva e Alessia Rotta del Pd, approvato dalla Camera senza alcun problema e poi in Senato con un voto di fiducia. Un paradosso se si pensa che una settimana fa Italia Viva e Pd si sono divise in Senato sul ddl Zan e sull’identità di genere contenuta nel provvedimento, come non mancano di far notare da destra. «Come è possibile – chiede Lucio Malan, senatore di Fratelli d’Italia – che in un decreto riguardante gli investimenti e la sicurezza delle infrastrutture, trasporti e circolazione stradale, sia stata inserita una norma ideologica, volta a limitare la libertà di espressione, con il pretesto che l’esercizio di questa libertà non può avvenire sulle strade e sui veicoli? Una cosa assolutamente inaccettabile, introdotta di soppiatto».
«Sarà ancora possibile affermare in una pubblicità che i bambini sono maschi è le bambine sono femmine? Che un bambino nasce da una mamma e un papà?», chiede Antonio Brandi, presidente di Pro Vita & Famiglia. «L’identità di genere non è entrata con il cavallo di Troia del ddl Zan e ora surrettiziamente il Governo ci riprova inserendola in questa norma sotto la foglia di fico, come al solito, delle discriminazioni» aggiunge Jacopo Coghe, vicepresidente della Onlus. Polemiche a cui Raffella Paita risponde con decisione. «L’emendamento è il frutto di un lungo lavoro trasversale che permette di dare un valore sociale a questi temi», spiega. E accetta solo in parte il riferimento al ddl Zan. «In quel caso l’identità di genere era declinata in varie forme al contrario di quanto accade nel nostro emendamento. Aver proposto e fatto approvare la modifica però è la dimostrazione che la forza politica che esprimo cerca di dare una mano sul tema dei diritti civili e che le battaglie in solitudine frenano il progresso. Bisogna lavorare con una logica di tessitura per aiutare chi subisce discriminazioni». –