La Stampa, 4 novembre 2021
Intervista a Paolo Rumiz. Parla della guerra in Bosnia
Fu «un massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie», scriveva Paolo Rumiz nel suo diario della guerra in Bosnia, pubblicato da Editori Riuniti nel ’99 e poi da Feltrinelli. C’era già tutto nel titolo, Maschere per un massacro, forse soprattutto nel sottotitolo: «Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia». Ora a 26 anni dagli accordi di Dayton, che posero fine a una guerra spaventevole e straordinariamente feroce, c’è il rischio concreto che tutto ricominci. Quando Rumiz ha chiuso il suo libro, non escludeva del tutto questa ipotesi.A distanza di anni, non è sorpreso dalla piega che potrebbero prendere gli eventi?«No. Non ero fiducioso allora e non lo sono adesso. Il motivo è intanto uno: non c’è stata una pace, ma un cessate il fuoco. E i problemi sono rimasti, soprattutto il senso dell’ingiustizia subita, tale da tener sempre accesa la miccia».Un accordo di pace senza pacificazione. Come lo spiega?«È stata sì siglata una pace, ma senza giustizia. In parole povere: non puoi vivere “in pace” sapendo che il tuo vicino di casa ti ha ammazzato il figlio».Inoltre lei ha sottolineato in varie occasioni la perenne crisi economica.«E la spaventosa corruzione. Due anni dopo la fine della guerra, tornai a Sarajevo e un taxista mi parlò delle sue paure, delle sue rabbie, peraltro senza il minimo riferimento alle diversità etniche. Era indignato contro la corruzione, invece, contro quelli che lucravano e avevano lucrato persino sugli aiuti umanitari. Ci sono due elementi caratterizzanti, in ciò che è accaduto. Il primo è che un’intera generazione di delinquenti e mafiosi si è insediata al potere. E ha dirottato sistematicamente la questione sociale su quella etnica. Basta vedere come hanno costruito i libri di scuola, basati sulla memoria di ciascuna delle tre comunità, e opposti tra loro. Se li leggi, ti vengono i capelli bianchi, altroché…».Eppure abbiamo assistito anche a una “primavera” bosniaca, che a Sarajevo e in altre città ha visto grandi manifestazioni di piazza, nel 2014, per protestare contro una situazione insostenibile. Disperse a suon di proiettili e granate. È sembrato l’inizio di qualcosa, di un cambiamento possibile. Ma non è accaduto.«È che i briganti sono armati, siamo sempre lì».I leader più violenti e criminali sono però scomparsi, processati dalla corte dell’Aja, condannati.«Ma non tutti. Molti sono ancora gli stessi, e continuano le loro politiche. Nei Balcani quei banditi si chiamavano Miloševi? e Karadži?, ma hanno avuto altri nomi in passato e minacciano di averne ancora altri in futuro».Lei ha parlato spesso di impotenza dell’Europa di fonte alle crisi che la riguardano. Nella prefazione a Il tunnel di Sarajevo, libro di interventi e testimonianze a cura di Angelo Lallo e Lorenzo Torresini, scrive che «la guerra in Bosnia non era affatto l’ultima del Novecento. Era la prima del terzo millennio. Esprimeva già il potenziale distruttivo delle tempeste a venire». Proprio per l’impotenza dell’Europa di fronte alle crisi che la riguardano.«È una situazione evidente ormai anche dal punto di visto storico. I Balcani sono stati frettolosamente dimenticati».Non abbiamo “voluto sapere”?«Purtroppo manca una lettura unitaria di quanto è accaduto, sia in Bosnia sia altrove, del resto. Anche noi fatichiamo a fare i conti col nostro passato. E loro, ovviamente, di più. Pensi a al caso estremo di Srebrenica».Dove il generale Ratko Mladic fece assassinare di ottomila musulmani. E per segnalare ai caschi blu la sua presenza – e le sue intenzioni – appese a un albero un porco scannato.«Ho parlato con gli abitanti dei paesi serbi lì vicino. Ammettono che Srebrenica è stato un orrendo delitto, ma sostengono anche di essere stati vittime a loro volta di massacri, per esempio nel villaggio di Kravica attaccato dalle forze bosgnacche, cioè “musulmane”, il giorno del Natale ortodosso del ’93. Esiste tutta una pubblicistica al proposito. Capisce che con queste memorie contrapposte, in una situazione di crisi economica perenne e in una realtà governata da veri e propri banditi, il rischio che la guerra ricominci è fortissimo». —