Linkiesta, 4 novembre 2021
Vietare le metafore ai politici
La giornata di martedì entrerà nei libri di storia. Il 2 novembre del 2021, quando le persone perbene cambiarono la loro lista di priorità, mettendo in cima non più «vietare i social ai politici» ma «vietare le metafore ai politici».
Se metafore che hanno a che vedere con la cultura popolare, poi, il divieto non è quello di base ma s’aggrava come certi vecchi avvisi sui treni: è severamente vietato.
Il colpevole di metafora è tal Giancarlo Giorgetti, che io ovviamente non avevo mai sentito nominare, giacché mi occupo di ministeri come questo Giorgetti si occupa di cinema.
Lo spericolato Giorgetti, intervistato da Bruno Vespa, se ne esce dicendo che i film «western stanno passando di moda. Secondo me sono finiti con Balla coi lupi». In effetti nei trent’anni tra gli Oscar a Balla coi lupi e ora non risultano western di Tarantino, né di Eastwood, né ha avuto alcun riscontro quel western in cui DiCaprio dormiva dentro la carcassa d’un cavallo (se ci ripenso mi sento male).
Ma perché Giorgetti parla di cinema? Perché è rimasto agli anni Novanta? Incidentalmente, il decennio di quel manifesto gucciniano intitolato Dovevo fare del cinema: «Sì, devo dire che ha proprio ragione il signore: c’è una crisi tremenda che investe l’intero settore. È che il pubblico vuole si parli più semplicemente, così chiari e precisi e banali da non dire niente. Per capire la storia non serve un discorso più grande: signorina cultura, si spogli e dia qui le mutande. Sa com’è, lei: deve fare del cinema. Mica roba pervertita, ma un soggetto che serva alla vita». Secondo me Giorgetti la squarciagola tutte le sere.
Dunque questo Giorgetti vuol parlare di Salvini, e vuole farlo sotto metafora, che già sarebbe grave. Ma, guccinianamente convinto che «tanto sa, facciamo tutti del cinema», passa dalla metafora di genere (genere western), a quella di casting, un casting purista, un casting che non prevede le contaminazioni, un casting pensato da uno che non dico non è mai stato al cinema, ma neanche ha mai pigiato col dito per guardicchiare un film su Netflix.
«Matteo è abituato a essere un campione d’incassi nei film western. Io gli ho proposto di essere attore non protagonista in un film drammatico candidato agli Oscar. È difficile mettere nello stesso film Bud Spencer con Meryl Streep». Ma, benedetto figliolo, ministro, onorevole, come diavolo devo chiamarla: Meryl Streep ha fatto Il diavolo veste Prada. È probabilmente il ruolo per il quale è più famosa presso il pubblico di questo secolo. La sta veramente usando come esempio di cinema serioso, di attrice pallosa di film d’essai (parlandone da vivi)? Le direi che Meryl Streep che fa la cazzona in un film di pugni sarebbe «groundbreaking», ma temo lei sia troppo eterosessuale per riconoscere una citazione del Diavolo veste Prada. Se proprio non possiamo vietarvi le metafore, a voialtri politici della corrente Ferilli nello spot per la telefonia («Quanto ce piace chiacchiera’»), almeno dovremmo rendere obbligatori dei corsi di citazioni citabili.
Purtroppo questo disastro educativo del quale Giorgetti è il prodotto, questo delirio secondo il quale a ostare a un casting che unisca Bud Spencer e Meryl Streep non è il fatto che uno dei due sia morto ma il fatto che uno è un cialtrone e l’altra un’attrice seria – come non fossero mai esistiti Abatantuono e Pupi Avati, o John Travolta e Tarantino, nei lunghi anni in cui Giorgetti la sera è andato a letto presto – purtroppo tutto ciò non è che l’inizio. Perché le pagine politiche dei giornali italiani vanno riempite, e quindi al delirio di Giorgetti risponde il controdelirio di Borghi (il politico, no l’attore: sennò saliva troppo il livello della competenza, invece bisogna rigorosamente parlare di campi ignoti).
A Concetto Vecchio (uno dei pochi intervistatori bravi di questo povero paese), che lo va a sfruculiare sul casting di Giorgetti, Claudio Borghi non risponde che lui non si occupa di queste stronzate (la probabilità che un politico si lasci scappare la possibilità di comparire su un giornale è ancora più bassa di quella che si faccia scappare la possibilità di fare un tweet; ma un giorno arriverà, non dico l’uomo che amo, ma almeno il politico senza social, e quel giorno giuro di votarlo per tutte le cariche: anche Billie Holiday si sarebbe accontentata, le fosse toccato vivere in questo secolo).
Claudio Borghi risponde, se avete cinquant’anni mettetevi a sedere, Claudio Borghi, che ne ha cinquantuno e quindi ha scoperto i french toast da Kramer contro Kramer, come tutti noi, e ha voluto le nuvole dipinte sul soffitto come tutti noi dopo aver guardato Kramer contro Kramer, Claudio Borghi, i cui figli saranno maleducatissimi, come quelli di tutti noi, perché il padre ha plasmato la propria identità di genitore su quei mollaccioni di Kramer contro Kramer che si nutrivano di senso di colpa nei confronti dell’odiosissimo ragazzino, Claudio Borghi, lo so che state aspettando da dieci righe che arrivi la proposizione principale e mi odiate e non avete fiato ma è giusto non lo abbiate altrimenti vi toccherebbe usarlo per imprecare, Claudio Borghi dice: «Dubito che in giro ci sia gente che sappia a memoria interi pezzi di Kramer contro Kramer».
Pensavo che Eluana Englaro che poteva ancora avere figli fosse imbattibile. O Beppe Grillo che fondi un partito e poi vediamo. O Milano che non si ferma. E invece ogni giorno un politico italiano si sveglia e ne dice una più grossa. Levategli le metafore, levategli i social, ma soprattutto levategli la ricetta dei french toast. Non se la meritano.