Corriere della Sera, 3 novembre 2021
L’ultimo libro di Pascale
La foglia di fico di Antonio Pascale (Einaudi) è un libro di piacevolissima lettura che racconta piccole, sofferte, ironiche vicende dentro i grandi e gravi problemi del nostro Paese e del nostro tempo. Noi affezionati lettori delle opere di questo autore estroso e irrequieto, ritroveremo subito, al meglio, i suoi maschi meridionali irresoluti e le sue donne soffertamente insofferenti mentre si danno alla manutenzione degli affetti, cercano attenuanti o aggravanti sentimentali, contemplano la bellezza che passa. Ma soprattutto ci ricorderemo di La città distratta, 1999: un libro del tutto fuori registro, dove acutezza sociologica, forza polemica, destrutturazione virtuosisticamente accattivante dei moduli consueti del racconto, trasformavano Caserta, città dove Pascale è cresciuto, nella sintesi di tutti i preoccupanti agglomerati distratti, al sud del mondo come al nord.
Ma – bisogna sottolineare – questa è anche un’occasione narrativa nuova. Pascale, qui, ha deciso di appendere quasi tutte le sue masserizie di scrittore alle piante: un cactus, un tiglio, un faggio, un olivo, un ciliegio, un pino, una quercia, un leccio, un fico con le sue foglie diventate metafora di tutte le vergogne coperte dall’ipocrisia. Non solo. Poiché gli alberi occupano ampiamente le pagine e ramificano intorno alle storie e ai personaggi, il libro ha – come si diceva una volta – le figure, vale a dire un corredo coloratissimo di tavole dovute a Stefano Faravelli.
Così su due piedi – incoraggiati dal fatto che già nelle prime pagine dedicate al cactus c’è una memorabile Sara definita «donna spinosa» – la foglia di fico può far venire in mente quei vecchi volumi sul linguaggio dei fiori, con illustrazioni così fini che si sentiva il bisogno di impaginarle protette da carta velina. E non sarebbe poi male: in effetti anche muovendo dall’interno di un qualsiasi manuale Hoepli è possibile che nasca un buon racconto, le vie della letteratura sono infinite. Ma ci accorgiamo presto che non è questo il caso, il libro ha poco a che fare con l’arte di dire usando la simbologia dei fiori. Le immagini di Faravelli suggeriscono una rivisitazione ironica dei codici miniati e Pascale non è tipo da scrivere pagine sentimental-floreali. Qui, piuttosto, l’autore mette a frutto il meglio, letterariamente parlando, della sua laurea in agraria e del suo impiego come ispettore del ministero delle Politiche agricole. Si decide, cioè, a fare quello che dovrebbe fare – tenendo casomai ambiziosamente a mente Il sistema periodico di Primo Levi – qualsiasi scrittore che si trovi nella condizione di non essere unicamente uno scrittore, di non frequentare solo la lingua della letteratura.
Inventa perciò, tirandolo fuori da sé, un io narrante che sa tutto di piante, che per lavoro stima i danni in agricoltura delle calamità naturali e che all’occorrenza diventa volenterosamente rampante e scala alberi per avere una visuale ampia delle piccole e grandi catastrofi del nostro territorio e della nostra esistenza. Dà inoltre a questo personaggio un’ottima compagnia. Si tratta di amici e fidanzate spesso della stessa formazione chimico-botanica, i quali e le quali si servono, dialogando tra loro, di un bell’italocampano ironico, autoironico e insieme in grado di chiosare canzoni, testi scientifici, capolavori della letteratura, con coltivata intelligenza. Viene fuori una storia molto mossa di infanzia, adolescenza, maturità, concentrata sotto, sopra, accanto agli alberi, dove però il vecchio stormire letterario di foglie generiche mentre avanzano le brume autunnali deve, volente o nolente, accogliere altre competenze e altro sguardo.
È molto godibile come Pascale fa urtare registri diversi raccontando, per bocca del suo Pascale di invenzione, faggete, pinete e altri boschi, luoghi di scorribande di ragazzini che poi diventano adulti tormentati. Gli affetti e gli amori e le accecanti passioni civili e Cechov e i bianchi fiori primaverili dei ciliegi riescono con successo – ottenendo cioè un di più di emozione da parte di noi lettori – a stare insieme a vocaboli come carotenoidi, betalaine e flavoni, «una sottoclasse dei flavonoidi». L’andamento, per capirci, è questo: si muove, che so, dalle foglie che cadono con un fruscio, dal sottobosco che ha lo splendore magico del tappeto di rame e oro, dalla nebbia sulle chiome dei faggi, tutte cose utili ai letterati; e poi quei moduli trovano un sorprendente equilibrio con la scienza dei colori autunnali, con le antocianine, col faggio che pompa e nebulizza acqua; fino a un movimento conclusivo che, grazie al nesso con l’acqua, assimila faggi e esseri umani e, oscillando tra malinconia e ironia, torna al sicuro effetto della nebbia e delle chiome; ma come se il narratore le avesse radiografate oltre la patina letteraria e i relativi abusi.
Questa materia verbale, che trattiene insieme materia vivente e no, dà grande energia al racconto. I molti personaggi – Antonino, Roberto, Sara, Cristina, Melania eccetera: il libro è denso – ora accampandosi in primo piano, ora dileguandosi, ora riapparendo, si inerpicano coi loro pensieri sugli alberi, animali quanto loro ma incatenati alla terra, facendo l’altalena coi rami per allenarsi alle intermittenze del cuore e alle oscillazioni dell’esistenza. E anche la composizione del racconto fa l’altalena. Pascale tiene giustamente a sottolineare che, quando la vita ci piove addosso al modo di una bomba d’acqua, non c’è trama che tenga. L’ordine cronologico si rivela una finzione. Domina sulle vicende umane l’anarchia del desiderio, e si estende di conseguenza anche alla narrazione. Le storie infatti, nel libro, schizzano da un frammento temporale all’altro, sono una fuga di schegge, una mirabile esplosione della memoria. Giovinezza, amori, maturità, studio, passione civile, vis polemica con le sue provocazioni e i suoi abbagli, urgenza di mettersi a rischio e paura, invenzione di miti e relative dissacrazioni, irruzione della malattia e sentimento della morte si congiungono con naturalezza alla chimica delle piante, al loro espandersi, alle loro mutilazioni, al loro ammalarsi e – a volte per l’incuria o la stupidità di noi animali scatenati, ottusamente fieri di ritrovarci per caso una coscienza che dice io – morire.
La consapevolezza della morte attraversa tutto il libro. Pascale è un innamorato appassionatissimo della vita che ci racconta, ma – questo è il bello – non abbandona mai il punto di vista lucidissimo dell’ispettore del ministero inviato sui luoghi del disastro per valutare i danni. E sui luoghi del disastro trova, per sua fortuna letteraria, un modello umano da imitare e a cui ancorarsi: il padre. Questo personaggio non va perso di vista: appare, scompare, riappare, tiene insieme le pagine di racconto vispo e quelle di riflessione saggistica, vale a dire un organismo letterario nel complesso non facile da far funzionare. A lui il personaggio dell’ispettore Pascale, e l’autore Pascale, devono la passione per gli alberi, l’occhio al bello scientifico e letterario, l’insorgenza polemica di fronte alle insensatezze, l’onestà intellettuale. E probabilmente anche la buona riuscita di questo La foglia di fico.