Corriere della Sera, 3 novembre 2021
Intervista a Eleonora Daniele. Parla di Luigi, il fratello autistico
La prima domanda che faccio a Eleonora Daniele è «chi era suo fratello Luigi?» e lei già ha le lacrime, ma proprio da non riuscire a parlare. Il 9 novembre, la conduttrice Rai di Storie Italiane porta in libreria per Mondadori Quando ti guardo negli occhi – Storia di Luigi, mio fratello.
Perché già si commuove?
«Perché nessuno mi ha mai chiesto chi era. Per tutti, sapere che era autistico equivale a sapere chi era. Invece, era una persona, con un suo carisma, un suo carattere e desideri che per decenni ho cercato di interpretare. Ogni autistico è un caso a sé e, dietro ognuno, c’è un infinito da scoprire».
Lei, la sorellina minore, era il tramite tra quell’infinito e il resto del mondo.
«Nessuno sapeva cosa pensasse. Non ha mai parlato. Ho imparato a capire se aveva sete o voleva un gelato alla fragola. E non sempre indovinavo. Se stava male, non sapevi se era un piede, un dente, lo stomaco. Ho due sorelle molto più grandi, lui aveva sei anni più di me, i miei lavoravano e io, da piccola, ero quella che stava di più con lui. Ero io la sua cocca e non lui il mio. Per cui, mi ha insegnato tante cose, nei suoi silenzi. Mi ha insegnato a stare in ascolto. È dura parlarne, i ricordi affiorano e io non sono pronta».
Che ricordo è arrivato?
«Io e lui, mano nella mano, io un’alicetta, magrissima, lui un gigante, un ragazzone».
Che cosa significava una diagnosi di autismo nel 1970?
«Se ne sa poco anche oggi, si figuri allora. Le famiglie erano abbandonate, isolate. Da poco la legge Basaglia aveva chiuso i manicomi ma anche tante strutture intermedie. Trovare un centro diurno dove un bimbo come lui potesse essere seguito non come se fosse matto era un’impresa. C’era tanta ignoranza. Anche da parte dei medici».
Per i suoi genitori come è stato?
«Sono stati straordinari. Intanto, non si sono mai vergognati. Non era scontato. Non hanno mai nascosto Luigi, vivevamo a Saonara vicino a Padova, lui frequentava la salumeria di famiglia anche se, nel mezzo di una crisi, poteva rovesciare uno scaffale di sottaceti. Il vantaggio del paese è che è una famiglia allargata, invece, nelle città, nel chiuso degli appartamenti, quella rete sociale manca».
Com’erano le crisi di suo fratello?
«La fase più difficile è cominciata con l’adolescenza. Diventava aggressivo, contro se stesso o contro gli altri. Sono cresciuta con lui che, se nel suo animo accadeva qualcosa, mi poteva pure picchiare, tirare i capelli, poteva farlo con me, con chi c’era. La giornata indimenticabile per me era quella che agli altri bambini sarebbe parsa noiosa perché non succedeva niente».
L’istituto e la morte
Fu necessario metterlo in istituto, papà non riusciva più a tenerlo durante le crisi. È morto a 44 anni e non sappiamo perché, forse era stanco di combattere
Perché ha scritto: «Mio fratello schivava i meteoriti»?
«Non stava mai fermo. Era come se fosse parte di un universo dove gli arrivavano addosso cose sconosciute che sembravano pericolose e che voleva schivare o cose belle: aveva anche momenti di gioia ed euforia, in cui ti faceva volare. Lui mi ha insegnato a capire quell’universo, è come se mi avesse regalato un talento che poi ho usato per raccontare storie in tv, ho raccontato tanti casi di fragilità».
Luigi le persone le capiva?
«Fabio, l’operatore sanitario che gli è stato vicino tanti anni in istituto, diceva: Luigi ti studia e sa a chi aprire o a chi chiudere la porta».
Quanto fu doloroso doverlo mettere in istituto?
«Fummo obbligati, papà era invecchiato e non riusciva più a tenerlo durante le crisi. Io avevo 14 anni e, a lungo, ho pensato solo a diventare indipendente per andare a riprendermelo. Poi l’istituto è diventato casa sua. Io piangevo quando ce lo riportavo la domenica sera, ma lui sorrideva. Ho dovuto accettare che tenerlo con me era egoistico».
La cosa più dura per lei?
«Il desiderio di salvezza è lacerante. E il senso di colpa. Ti chiedi perché non io?».
Luigi è morto a 44 anni, inspiegabilmente. Lei crede che si lasciò andare perché, per via di una normativa regionale, gli cambiarono istituto, togliendoglielo dal luogo dove stava bene da vent’anni?
«Una risposta vera non l’avrò mai. La sensazione è che anche i più fragili, a volte, si stancano di combattere come ci stanchiamo noi. Chi ha un disabile in famiglia vive una lotta contro la burocrazia. Mancano le strutture e, negli ospedali, manca il personale sanitario formato per curare persone con bisogni speciali. Manca tutto. Io con l’associazione fondata con le mie sorelle supporto chi insegna a parlare ai bimbi autistici. Mi sono sempre chiesta se mio fratello avrebbe potuto imparare qualche parola. Quando lo sogno, e lo sogno spesso, parla sempre perfettamente e con voce limpida».
E che cosa le dice?
«Non so ripeterlo, ma è come se venisse in sogno a chiacchierare per dirmi che è normale come tutti noi».