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 2021  novembre 03 Mercoledì calendario

Intervista ad Abel Ferrara


I settant’anni sono dolci per Abel Ferrara: il regista newyorkese, archiviati da un decennio certi eccessi, si è costruito una bella quotidianità romana nel rione Esquilino dove vive con la moglie Cristina Chiriac e la figlia Anna. Il vicino di casa – spesso attore nei suoi film – è Willem Dafoe. La vena creativa è tutt’altro che doma: Siberia è stato uno degli ultimi titoli alla Berlinale prima della clausura, a febbraio 2020; Zeros and ones, con Ethan Hawke, scritto e girato durante il lockdown, è stato premiato per la regia all’ultimo festival di Locarno. Ora, da Trieste, ospite al Science+Fiction Festival, Ferrara annuncia il ciak, il 22, di un lungometraggio su Padre Pio, progetto nato dopo il suo documentario di cinque anni fa.
Cosa rappresenta per lei la figura di Padre Pio?
«Un leader spirituale, un individuo potente, un religioso. C’era una statua nella chiesa dove sono cresciuto: mio nonno Abele è emigrato a New York con i fratelli quando aveva vent’anni, gli altri non si sono adattati e sono tornati, lui si è costruito una vita. Era nato in un paesino tra Salerno e Napoli, non lontano da quello di Padre Pio, nello stesso anno. Ed era molto legato alla sua figura, quindi appartiene un po’ alle mie radici italiane».
Ha scelto di raccontarlo in un periodo preciso della giovinezza.
«Quando ha avuto le stimmate, una sorta di colpo di scena cinematografico. Nel 1920, durante il massacro del biennio rosso a San Giovanni Rotondo, una storia clamorosa che mi pare in Italia non si ricordi molto. Alla fine della Prima guerra mondiale: nel Paese la sinistra aveva vinto le elezioni, ma avevano votato anche i contadini, non certo le donne. E, proprio come è successo con Trump nel mio Paese, la destra ha rifiutato di accettarlo anche perché c’era la grande paranoia della Rivoluzione russa. Durante la processione la folla voleva piantare la bandiera rossa al municipio ma ci sono state delle provocazioni, uomini che sono arrivati per fermare quel gesto: non era mai accaduto in Italia. Ci sono varie versioni ma alla fine si è sparato sulla folla: undici morti, tra cui una giovane incinta, un agricoltore, un carabiniere e 60 feriti. La chiesa in quel periodo era al potere con i latifondisti, Padre Pio non ne faceva parte ma il monastero dei cappuccini era lì. A questi fatti accosto, nel film, le stimmate, anche se in realtà non le ebbe proprio in quel momento».
Perché?
«Mi pare che lì, in quell’attimo, sia nato il fascismo, che è una creazione tutta italiana, non importata dalla Germania. Dal 1920 ai 25 anni successivi 100 milioni di persone sono state uccise, con la Seconda guerra mondiale. La vedo come una semina del diavolo, che è un personaggio del film. Che manipola alle spalle, contro cui la notte Padre Pio combatte nella sua stanza. Solo lui poteva vederlo e stiamo cercando di capire cosa è successo davvero in quell’angolo di storia. Se ci riusciamo verrà un film interessante».
Perché ha scelto Shia LaBeouf?
«Me lo chiede per i suoi problemi negli Stati Uniti? Credo meriti una chance. È un grande interprete. Non lo conoscevo ma abbiamo amici comuni. Da due mesi vive in un convento in California. Ho lavorato sempre con grandi attori, molto diversi tra loro. Con Al Pacino avevamo un progetto, poi non andato in porto; mi colpiva il suo modo di prepararsi: non diceva mai la battuta e non parlava mai del ruolo. Harvey Keitel è simile. Invece con Dafoe ci facciamo chiacchierate lunghissime, a volte su una singola scena. Lui è un amico, padrino di mia figlia, passiamo molte serate insieme».
Sente mai la nostalgia di New York?
«No, anche se è stata la città della mia infanzia. Ma posso andarci quando voglio, e ci vado, ma non a vivere. Anche per la qualità della vita, è una città dove tutto è caro: cibo, affitto, non potrei permettermela. Quando sono cresciuto non avevo soldi. Artisti che oggi tutti venerano, Basquiat, Keith Haring, i Ramones... nessuno di loro aveva soldi e nessuno pagava l’affitto. Ora se non sei ricco non puoi neanche pensare di abitare a New York. Solo un caffè, che qui costa 1 euro, là viaggia tra i 4 e i 7 dollari. E io bevo molti caffè».
Roma è un paesaggio frequente nei suoi film. Compreso “Zeros and ones”, ma qui è una città da noir distopico.
C’è un attentato al Vaticano, Hawke si sdoppia in due fratelli nella rete di spie americane, russe, cinesi...
«Ho scoperto che Ethan ha un fratello militare, una rivelazione.
Valerio Mastandrea ha accettato subito di tornare sul set con me. Il film l’ho scritto durante il primo lockdown, è un omaggio ai noir alla Melville. C’è la mia Roma, dalla stazione Termini al Colosseo, Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano. Vivo qui da sette anni, ho molti amici. Lo scenario deserto dopo il coprifuoco delle 21 era perfetto per le riprese. Avevamo paura – alcuni della troupe hanno un’età, come me – e non c’erano ancora i vaccini.
Abbiamo seguito i protocolli».
Il film si apre con le considerazioni del vero Hawke.
«All’inizio avevamo preparato dei video per accompagnare il film ai festival. Poi ho pensato che qualcosa del genere c’era anche in Welcome in New York con Gérard Depardieu e in Siberia, con Dafoe. E il video è entrato nel film».
È vero che Asia Argento sarà il suo alter ego in un film?
«Sì, interpreterà me in un progetto sperimentale. Amo Asia, la conosco da tanti anni, il suo talento, la forza di lottare, l’amore per la famiglia, il suo mistero...».
Ha lasciato Hollywood per l’Europa. Si sente più libero?
«Mi sono sempre sentito libero, anche se in alcune situazioni magari non lo ero davvero».
Cos’era per lei il cinema quarant’anni fa e cosa è oggi?
«Oggi ho più esperienza, ma ogni inizio è un caos, non esistono formule».
La pandemia ci ha cambiato?
«Spero ci faccia sentire più grati delle piccole cose, della vita. Solo 70 anni fa l’Europa è stata travolta da morte e violenza, oggi viviamo in pace, dentro qualcosa che somiglia alla libertà».