la Repubblica, 3 novembre 2021
La storia di Moustafa, il bimbo siriano di 5 anni che ha perso braccia e gambe in un attacco chimico e che sorride del niente che ha
Mustafa non lo freghi. Puoi provare mille volte a raccontargli che le sue braccia e le sue gambe si trovano in un posto lontano e gli spunteranno quando sarà grande, lui si mette a ridere. Una risata sonora e meravigliosa. Fissa la telecamera del telefono di papà Munzir e da tremila chilometri di distanza ti piomba nell’anima riportandoti a una realtà che vorresti non esistesse. La sua realtà. «Allora voglio sapere, quando sarò grande? Quando mi ridanno i piedi?». Anno e giorno, che Mustafa ha già perso troppo tempo e vuole andare a scuola camminando. «Quanto devo aspettare?». Realizzi che la risposta non ce l’hai. E cosa si dice a un bambino di cinque anni che per un attacco chimico del regime di Assad non può correre e non può abbracciare, eppure riesce a sorridere del niente che ha? Si rimane pietrificati, con un’espressione da ebete.
Mustafà e Munzir al-Nazzal sono il figlio senza arti e il padre senza gamba. Sono quelli della foto del turco Mehmet Aslan premiato a settembre al Siena International Photo Award. L’immagine, risalente al 2020, ha fatto il giro del mondo, ma a sentire Munzir il mondo non è cambiato: chiacchiere tante, solidarietà poca. «Viviamo una vita talmente pesante che forse la morte sarebbe migliore», esordisce quest’uomo di 35 anni con la barba e le stampelle. «I soldi del sussidio della Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa turca,
ndr )
ci bastano a stento per il latte e i pannolini. Ci sono giorni in cui non mangiamo, da tre settimane ci hanno staccato acqua e gas. Sono uno storpio, nessuno mi prende a lavorare. Mustafa ha bisogno di operazioni chirurgiche e di protesi elettroniche. Le ong ci fanno le foto e poi se ne vanno, dicono che ci stanno aiutando ma non è vero».
Munzir da tre anni abita in una casa in affitto a Reyhanli al confine con la Siria. Con lui la moglie Zeynep e i tre figli: Mustafa, Sajida di tre anni e mezzo, Nura di un anno e sette mesi. Accetta di parlare con
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«Prima della guerra civile in Siria ero iscritto all’università. Vivevo a Maarat al Naaman, non lontano da Idlib. Un giorno, nel 2014, ero al mercato della frutta di Maarat e un elicottero ha lanciato un barile bomba. Le schegge mi hanno investito. Sono stato portato d’urgenza in Turchia dove mi hanno amputato la gamba destra». Solleva la maglia, mostra lunghe cicatrici sulla pancia e sulla schiena. «Allora ero sposato già da un anno con Zeynep, che è mia cugina di secondo grado».
Poi il 4 aprile 2017, Khan Shaykhun, il veleno che piove dal cielo. «Abbiamo dei parenti a Khan Shaykhun. Quel giorno avevo delle cose da fare per lavoro quindi ho lasciato mia moglie da loro. La notte mi hanno chiamato dicendomi che c’era stato un bombardamento aereo con armi chimiche. Sono arrivato alle 6 di mattina. Zeynep, che era già incinta di Mustafa, era in ospedale, attaccata alla macchina dell’ossigeno tra pazienti che non riuscivano a respirare e cadaveri. Dopo poco l’esercito ha conquistato la nostra zona e siamo fuggiti al campo profughi di Bab Al Hawa. Ho portato mia moglie dalla ginecologa, che non ci ha detto niente sulle condizioni del feto. Sicuramente aveva capito, però sosteneva di non vedere nulla con l’ecografia... dopo la nascita di Mustafa, i medici ci hanno spiegato che era molto probabile che la malformazione fosse dovuta al gas Sarin. Ci hanno trasferito in Turchia, con la promessa di fare accertamenti. Sono spariti anche loro. Conosciamo altre quattro bambine nate senza braccia e senza gambe. E mia moglie due volte al mese ha crisi respiratorie ancora oggi».
«Mustafa non va a scuola, non ha amici. Restiamo chiusi in casa tutto il giorno. Non c’è ospedale turco a cui non mi sia rivolto. L’ultima volta mi hanno mandato ad Ankara, anche lì mi hanno detto che la cura per Mustafa non esiste in Turchia. Ha bisogno di protesi elettroniche e di sottoporsi a diverse operazioni per l’allungamento delle ossa. Ha anche la bocca dello stomaco stretta per cui mangia pochissimo e si nutre di latte, serve un intervento chirurgico d’urgenza. Il suo apparato genitale ha delle anomalie».
Il bimbo intuisce che si sta parlando di lui, si rotola sul pavimento per attirare l’attenzione, in qualche modo punta la testa e si alza in verticale, capovolto. «Fa vedere agli italiani come fai ginnastica, Mustafa, tirati su», lo incoraggia suo padre. «È estremamente intelligente, gli adulti di 40 anni non gli stanno dietro. La sua testa funziona bene, grazie a Dio, usa applicazioni complesse sul telefono, meglio di chi lavora nei negozi di telefonia. Prega da solo. Ogni tanto mi dice che vuole diventare grande per avere le mani e le gambe, gli ho promesso che le avrà, Inshallah». Mustafa ridacchia e guarda lo smartphone. «Riprendetemi! Voglio pregare!», e recita l’Al-Ikhlas, la terzultima sura del Corano.
«In futuro potrebbe diventare un inventore, un ingegnere nell’aeronautica... oddio, gli aerei lasciamoli stare, ci hanno già tolto troppo. Vorrei vederlo felice come gli altri bambini, vorrei vederlo studiare. Sulla mia famiglia le Nazioni Unite hanno un dossier, basterebbe trovare un Paese che ci accolga. Ci auguriamo di poter venire in Europa, la Germania è all’avanguardia per le protesi».
Mustafa, cosa vuoi fare da grande? Il viso si illumina. «Voglio andare a scuola! Voglio salire in macchina e guidare! Andrò all’Università!». Mustafa non lo freghi mai. È un gigante. E saluta lanciando baci al telefonino con la mano che non ha.
(ha collaborato Fouad Roueiha)