la Repubblica, 3 novembre 2021
Perché il carbone è tanto caro alla Cina
Un milione di tonnellate al giorno in più. La fabbrica del mondo non si può fermare e per combattere la sua crisi energetica il gigante asiatico si rifugia nel caro, vecchio e sporco carbone. Pechino si è impegnata a non finanziare nuove centrali all’estero, ma tra le mura di casa non può, ancora, che aumentare la propria produzione.
Ieri la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme ha affermato infatti che quella giornaliera è stata superiore a 11,5 milioni di tonnellate da metà a fine ottobre, circa 1,1 milioni di tonnellate in più rispetto a fine settembre. Proprio tra agosto e settembre, per tenere fede agli impegni presi (picco delle emissioni prima del 2030 e neutralità carbonica entro il 2060) e con i prezzi record dei combustibili – in un momento in cui la domanda di elettricità in Cina è in aumento, con il mondo che lentamente emerge dalla pandemia e la produzione di beni di consumo che cresce – era arrivato l’ordine di rallentare. Difficile: oggi il Dragone è dipendente dal carbone ancora per il 60% del suo mix energetico (e assieme agli altri combustili fossili si arriva all’87%): Pechino ne brucia la metà di tutto quello consumato nel mondo.
È successo l’inevitabile: centrali al ralenti, razionamenti dell’energia con relativi blackout e costi per le aziende a salire. Ecco perché nelle ultime settimane le autorità hanno fatto marcia indietro e ordinato alle miniere di ritornare a spingere, riaprendo anche quelle già chiuse. E poi si avvicina l’inverno, e sarà molto freddo. Una carenza di carbone potrebbe tagliare l’energia che serve alle industrie tra il 10 e il 15% a novembre e dicembre (stima Ubs), traducendosi in un rallentamento del 30% dei settori chiave che più consumano, come acciaio, prodotti chimici e produzione di cemento.
La Cina ha fatto enormi passi avanti verso la transizione energetica. Tornare al carbone rischia di rovinare tutto. «Fiumi limpidi e montagne verdeggianti costituiscono un patrimonio inestimabile», disse Xi due anni fa, primo presidente cinese a fare della questione climatica una «priorità nazionale». Questione centrale anche per migliorare la propria immagine all’estero (proprio in Cina, a Kunming, si è appena conclusa la Cop15 sulla biodiversità), per imporre i propri valori e pure il proprio vocabolario. Già dal 2012 il concetto di “civilizzazione ecologica” è entrato in Costituzione, preferito a quello di “sviluppo sostenibile”, forse giudicato “troppo occidentale”.
Pechino non vuole sottrarsi alla lotta, ma chiede tempistiche che rispettino la propria diversità, continuando a punzecchiare gli Stati Uniti per essersi ritirati con Trump dagli Accordi di Parigi e di essere i responsabili, storicamente, del maggior numero di emissioni. Rispetteremo gli impegni – è il ragionamento – ma voi avete avuto la vostra Rivoluzione industriale e avete inquinato il mondo, ora noi – Paesi in via di sviluppo – abbiamo il diritto di perseguire la crescita e combattere la povertà. «Responsabilità comuni, ma differenziate» è la frase magica che esemplifica la linea cinese. Tradotto: nel 2020 (dato del Centre for Research on Energy and Clean Air) la Cina ha costruito centrali a carbone per una potenza pari a più del triplo di quella installata da tutti gli altri Paesi insieme. E pure quest’anno le centrali si sono moltiplicate: nei primi sei mesi il governo ha dato luce verde alla costruzione di 18 altiforni per l’acciaio (Pechino ne produce la metà di quello mondiale) e 43 centrali elettriche a carbone.
In attesa di vedere come andrà la missione di Xie Zhenhua, l’uomo scelto per rappresentare la Cina alla Cop26, Xi ha promesso che presto ci saranno piani dettagliati e nuove misure a sostegno dei settori chiave dell’economia per raggiungere gli obiettivi. Nel frattempo l’impegno è limitare l’uso del carbone dal 2026, arrivare al 25% dei combustibili non fossili tra 10 anni (e all’80% nel 2060) e aumentare da qui al 2030 la capacità totale di energia solare e eolica a 1.200 gigawatt.