La Stampa, 3 novembre 2021
La vita di Salah Abdeslam prima del Bataclan
Negli ultimi giorni appariva già con i capelli rasati in testa e una barba sempre più folta. Quel look da fondamentalista non augurava niente di buono: Salah Abdeslam, 32 anni, l’unico sopravvissuto dei dieci jihadisti del commando, che sparse l’orrore a Parigi la sera del 13 novembre 2015, doveva rispondere ieri alle domande dei giudici e degli avvocati, al processo in corso nell’aula bunker, nel cuore di Parigi. Per gridare ancora, come fece il primo giorno, lo scorso settembre, aggressivo e vendicativo, «sono un soldato dello Stato islamico»? No, ieri, in realtà, al di là delle apparenze, l’uomo ha assunto toni tranquilli. Ambiguo, la sua è stata probabilmente una strategia difensiva. Ostentare il volto umano e rilassante di un terrorista.
Contraddittorio Abdeslam lo è stato fin dagli inizi. Quella sera, prima che i suoi complici si fiondassero al Bataclan, lui ne accompagnò tre allo Stade de France, che si fecero saltare in aria. La sua cintura esplosiva, invece, fu ritrovata nella periferia Sud in un cestino dell’immondizia. Non poté fare il martire, perché era difettosa? O non l’azionò per codardia? Dovrà spiegarsi anche su questo, ma in gennaio. Ieri, invece, l’udienza riguardava la sua vita e personalità. Salah ha parlato, forse anche un po’ recitato. È originario di Molenbeek, il quartiere di Bruxelles, da dove provengono gran parte degli altri tredici imputati, accusati di complicità. Papà conducente di tram, mamma casalinga, di origini marocchine, Abdeslam dice che da bambino era «calmo e gentile. In famiglia c’era una buona atmosfera». Dopo la maturità tecnica, andò a lavorare come meccanico nella società del padre, a riparare i convogli. Ma dopo un anno e mezzo si licenziò, inanellando una serie di lavoretti. Finché una sera fu arrestato per tentativo di rapina in un garage («mi ci ritrovai in mezzo, senza volerlo»), assieme al suo amico da sempre, Abdelhamid Abaaoud, altro giovane perso di Moleenbek. Ieri non lo ha ricordato, ma anni dopo, guardando i video postati da Abaaoud dalla Siria, mentre al volante di un Suv trascinava nella polvere i cadaveri dei giustiziati dello Stato islamico, Abdeslam si convincerà che anche per lui era arrivata l’ora della jihad.
Prima era stato condannato più volte, anche per guida senza patente o sotto l’effetto di stupefacenti. «Amo la velocità», ha commentato ieri. Abaaoud, mente operativa degli attentati del 13 novembre, lo utilizzò nei mesi precedenti per scorrazzare in tutta Europa su auto di grosse cilindrata: andava a cercare tra l’Austria e l’Ungheria gli altri terroristi del commando, arrivati dalla Siria come migranti qualunque. La sua radicalizzazione risale al 2014, giusto un anno prima del Bataclan. In precedenza (ma, secondo varie testimonianze, anche pochi giorni prima gli attentati…) Abdeslam beveva, andava in discoteca (pure gay, per attirare omosessuali adulti e poi spennarli), si faceva le canne nel bar del fratello (lui martire davvero il 13 novembre). Ieri ha voluto ridimensionare quel Salah lì («Spinelli? Una volta ogni tanto»). Per poi riassumersi così: «Sono nato in Belgio, sono cresciuto lì, impregnato dei valori occidentali». Che vuol dire «vivere come un libertino, senza preoccuparsi di Dio. Fare, bere e mangiare quello che si vuole».
Da cinque anni e mezzo vive isolato nella sua cella, con la possibilità due volte al giorno di andare in un altro spazio a fare sport. Si è lamentato del fatto di vivere relegato in nove metri quadrati. Ma il presidente della corte gli ha fatto notare che a Fleury-Mérogis, la prigione dove si trova, al Sud di Parigi, ci sono anche due o tre persone in ogni cella, delle stesse dimensioni, a causa della sovrappopolazione carceraria. «In ogni caso ho rifiutato i sostegni psicologici che mi hanno proposto – ha detto lui, sicuro -, non ne ho bisogno». Che enigma Abdeslam. O forse no. Sven Mary, suo ex avvocato in Belgio, lo descriveva così: «Era un esecutore d’ordini più che uno che decideva. Ha l’intelligenza di un posaceneri vuoto». —