la Repubblica, 3 novembre 2021
Da "Il campo di battaglia. Perché il Grande Gioco passa per l’Italia" di Maurizio Molinari (La nave di Teseo)
Le grandi crisi globali passano per l’Italia, assegnandoci il ruolo di Paese di frontiera nelle trasformazioni del XXI secolo. Non è la prima volta nella Storia che la nostra Penisola, nel bel mezzo del Mediterraneo, diventa l’epicentro di contese strategiche e rivalità economiche di vasta portata ma la simultaneità fra ricostruzione europea, populismo, affermazione di nuovi diritti, duello fra Stati Uniti e Cina, competizione fra potenze nel Mediterraneo e ritorno della minaccia jihadista ci assegna un ruolo inatteso sul palcoscenico internazionale, trasformandoci in una sorta di cartina tornasole della capacità delle democrazie di adattarsi alle sfide del nuovo secolo, di rispondere ai pericoli più aggressivi e di risollevarsi e rilanciarsi continuando a garantire ai propri cittadini prosperità e sicurezza. Ecco perché il Grande Gioco attraversa la nostra Penisola, trasformandoci in un campo di battaglia di scontri di portata globale e assegnandoci un ruolo strategico che supera spesso anche la nostra percezione. Sono sette i motivi del perché iniziamo il terzo decennio del Duemila come Paese di frontiera. Siamo anzitutto il crocevia della ricostruzione europea perché dopo la devastazione economica causata dalla pandemia Covid-19 il piano per il rilancio dello sviluppo dell’Unione Europea ha nel nostro pil un tassello indispensabile. Ciò significa che le nostre fragilità strutturali – dal fisco alla giustizia, dalla concorrenza alle infrastrutture – devono essere sanate per consentire non solo a noi ma anche all’Ue di rimettersi in moto. E dunque il riscatto del nostro Stato-nazione da corruzione, carenza di rappresentatività democratica e diseguaglianze economiche è decisivo per consentire alla costruzione europea di ripartire, accelerando verso gli obiettivi più ambiziosi. Essere stato il primo Paese dell’Ue esposto all’attacco a sorpresa del virus di Wuhan ci ha già di per sé assegnato un ruolo di leadership nella risposta all’emergenza e quando la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha varato il NextGenerationEU come piano per la ricostruzione collettiva il risultato è stato evidenziato dai numeri: è l’Italia a ricevere la quota più alta di aiuti e finanziamenti perché spetta a noi fare la differenza. Se falliremo sarà l’intera Europa a risentirne, se avremo successo sarà l’intera Europa a giovarsene. Essere un tale crocevia della costruzione comunitaria significa che quanto avviene nelle nostre città, imprese e famiglie può avere un impatto superiore a ciò che noi stessi riusciamo a immaginare. Può sembrare paradossale che il Paese Ue con il secondo debito pubblico più alto si trovi a recitare un ruolo così determinante per l’Europa intera, ma in realtà è proprio l’entità di errori e ritardi frutto di decisioni passate che ci assegna oggi la maggiore responsabilità nella ripresa collettiva. Facendo dell’Italia il terreno decisivo per il futuro sviluppo dell’Europa unita. Siamo decisivi per l’Europa anche perché ci troviamo in bilico sul vulcano del populismo. È da noi che, nel marzo del 2018, i partiti della protesta per la prima volta in Europa occidentale hanno ottenuto la maggioranza relativa dei voti in un’elezione politica – e la conseguente maggioranza dei seggi in Parlamento – e poiché la XVIII legislatura è ancora in corso tale fragilità strutturale resta l’ipoteca politica più seria sul futuro del Paese, sebbene dal febbraio 2021 al governo ci sia un pragmatico europeista come Mario Draghi, ovvero il leader più lontano da ogni sorta di estremismo ostile alle istituzioni della Repubblica. La maggioranza parlamentare che sostiene Draghi include anche i partiti – Lega e Movimento 5 Stelle – che vinsero le elezioni politiche del 2018 e ciò descrive la situazione di bilico politico-istituzionale in cui ci troviamo. Da una parte c’è la coalizione di Draghi, tenuta assieme dallo spirito repubblicano che riflette l’interesse nazionale indicato dal capo dello Stato Sergio Mattarella di portare a termine la campagna di vaccinazione e risollevare l’economia, ma dall’altra ci sono le istanze sovraniste e populiste che ancora albergano dentro i due partiti con più seggi in Parlamento e che minacciano di far franare la ricostruzione. Il bilico politico in cui il governo Draghi si trova nasce dalle spaccature presenti nei maggiori partner della sua coalizione, e lo obbliga a spingere sull’acceleratore delle riforme per evitare di esporsi al rischio di pericolosi boomerang, potenzialmente capaci di gettare il Paese nell’instabilità politica. La virulenza del populismo fa dell’Italia la possibile palestra di una risposta alla protesta grazie a una nuova generazione di diritti capaci di rispondere allo scontento del ceto medio, andando a individuare quali sono i nuovi bisogni da proteggere. E l’Italia può dunque, avanzando sui diritti, fare da battistrada sul fronte della rigenerazione del rapporto fra cittadini e istituzioni. Contribuendo a respingere l’assalto concentrico di populisti interni e autocrati stranieri. Se ricostruzione post-Covid, bilico sul populismo e nuovi diritti posizionano l’Italia nel ruolo di nazione decisiva per le sorti dell’Europa comunitaria, in altri quattro ambiti il nostro Paese può fare la differenza per la sua dimensione internazionale: al centro di un Mediterraneo conteso fra potenze rivali, nel fronteggiare il ritorno della Jihad da Kabul all’Africa, come teatro della nuova Guerra Fredda fra America e Cina, a fianco dell’amministrazione Biden nel trasformare la comunità delle democrazie in un volano del riscatto dell’intero Occidente. Il Mediterraneo è una regione contesa perché i rivali, globali e locali, degli Stati Uniti ne hanno bisogno per tentare di modificare a loro vantaggio gli attuali equilibri internazionali. E ognuno di loro vede nell’Italia una pedina del proprio mosaico. Ciò è vero anzitutto per la Cina di Xi Jinping, che individua nel Mediterraneo un tassello cruciale nella realizzazione della Belt and Road Initiative, la Nuova via della seta, per portare i propri beni e servizi fino al cuore dell’Europa, il più ricco mercato del Pianeta. Da qui il forcing, politico ed economico, per assicurarsi il controllo di porti italiani di valore come Trieste, Genova e Taranto. A ogni affondo di Pechino – soprattutto durante il governo Conte II – ha risposto una contromossa di Washington, con il risultato di dare vita a una partita a scacchi fra i palazzi romani che ha portato a respingere le offerte cinesi su Trieste e Genova, mentre la sfida su Taranto ancora non è conclusa. C’è poi il secondo, e più incisivo, tentativo da parte di aziende cinesi di ottenere la leadership nello sviluppo di nuove tecnologie delle telecomunicazioni digitali – come il 5G – che ha visto le amministrazioni Trump e Biden rispondere facendo leva sui tradizionali rapporti di alleanza, riuscendo a ottenere da Roma limitazioni legislative e giuridiche a investimenti che avrebbero creato problemi di sicurezza nazionale nei legami fra alleati. Se il duello economico e tecnologico Usa-Cina si svolge anche sul mercato economico italiano, la nostra Penisola è pure al centro di un più tradizionale scontro di influenza fra Washington e Mosca. La scoperta di una talpa russa dentro lo Stato Maggiore della Difesa ha consentito di ricostruire un network di contatti e relazioni creato negli ultimi anni dall’intelligence di Mosca per potersi impossessare di informazioni dell’Alleanza atlantica. Senza contare i rapporti Ue e Nato che individuano in “attori russi” i protagonisti di una campagna di disinformazione cyber tesa a creare scompiglio nel nostro Paese, sostenendo sempre e comunque le istanze più estremiste e anti-istituzionali. Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan e il rafforzamento dei gruppi fondamentalisti islamici in Africa – dal Sahel alla Somalia – espone inoltre il nostro Paese, per il suo ruolo nel fianco Sud dell’Ue e della Nato, ai pericoli legati a una rinnovata minaccia jihadista, al rischio di una nuova grande crisi dei profughi e a un vasto riassetto dei rapporti internazionali che include Mosca e Pechino. Davanti a tali sviluppi la decisione del governo Draghi di indicare il G20 come forum dove affrontare le conseguenze della conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani – dalle minacce di terrorismo al flusso di profughi – lascia intendere la volontà del nostro Paese di recitare un ruolo di primo piano per consentire a Occidente, Russia, Cina, Turchia e India di individuare possibili terreni d’intesa a dispetto delle evidenti differenze strategiche. L’attenzione di partner e alleati rivolta a Draghi è alta, consistente e costante, soprattutto in ragione di quanto avvenuto durante i due governi guidati da Giuseppe Conte e segnati da forti e molteplici frizioni con e proprio su temi strategici. Da qui la scelta del presidente Joe Biden di identificare in Draghi non solo un partner affidabile in Europa contro i populisti e nel Mediterraneo contro le autocrazie ma anche un interlocutore possibile nel progetto di rafforzare la comunità delle democrazie. Ovvero, definire con partner e alleati l’agenda di politiche comuni per affrontare i temi di maggior emergenza che ogni nazione occidentale ha sul fronte interno: lotta alle diseguaglianze, difesa del clima, lotta alla pandemia, protezione dai cyberattacchi. Pur indebolito nel rapporto con gli alleati dagli errori compiuti nella modalità del ritiro da Kabul nell’agosto 2021, Biden è convinto di poter ricostruire l’Occidente dal di dentro, rispondendo alle sue debolezze con politiche profondamente riformatrici, e vede nell’Italia di Draghi e Mattarella un interlocutore indispensabile. Anche su questo fronte, dunque, la Storia passa attraverso la nostra Penisola