Corriere della Sera, 2 novembre 2021
Intervista a Carmen Llera Moravia
Da quando l’ho cercata per intervistarla, tutte le mattine, fra le sei e le sette, Carmen Llera Moravia mi manda una foto di Roma. Può essere piazza Navona, possono essere i Fori Imperiali. Lei è lì che cammina, perché la città, che definisce amatissima dopo averla detestata all’inizio, solo a quell’ora è vuota e neanche tanto luminosa. Lei non ama la luce. Racconta di avere una tela di Capogrossi in casa, gliel’avevano rubata, la polizia l’ha ritrovata: «Il nipote mi ha detto che non ne ha mai vista una così ben conservata. È perché la stanza è sempre in penombra». Le chiedi il primo ricordo da bambina e risponde «la paura della luna piena, grande e luminosa. Mi nascondevo così bene che papà non mi trovava». Era difficile sospettare l’avversione per la luce quando Carmen irruppe nelle cronache, nell’anno 1981: per tutti, era la spagnola giovanissima, caliente per cliché, che aveva travolto e fatto innamorare Alberto Moravia, quasi il triplo dei suoi anni: 26 lei, 73 lui. «Ma io sono del Nord, della Navarra, non il tipo alla Penélope Cruz», dice adesso, «da noi, anche il mare, il Cantabrico, è freddo. Alberto diceva sempre che non conosco sentimentalismo, che sono dura».
Oggi, si sente più spagnola o italiana?
«Penso in italiano, scrivo in italiano. Sono venuta qui per starci un anno, ero Lettrice all’Università di Palermo, non sono più andata via».
La sua vita, i romanzi che ha scritto, raccontano uno spirito libero.
«Libero ma non ribelle. Sono cresciuta in un collegio di suore a Pamplona, come tutte le ragazze per le quali si cercava la migliore educazione, e ci stavo benissimo. Mi sembrava, attraverso lo studio, di coltivare la mia libertà. Non amo le imposizioni e la mancanza di libertà mi terrorizza, ma se mi autoimpongo regole sono un orologio svizzero. Mi sveglio sempre alle cinque e mezzo, esco presto, cammino a lungo. Vado al cinema tutti i pomeriggi alle tre. Non esco mai a cena, vado a letto dopo il tg. Alberto usciva tutte le sere e io restavo a casa. Nessuno riesce a farmi fare una cosa che non mi piace».
Primo matrimonio a 18 anni, col suo prof. di Filosofia. Era libertà o ribellione?
«Era una grandissima infatuazione. Mio padre era contrario. Gli promisi che avrei continuato gli studi e non avrei avuto figli prima della laurea. A luglio, ero incinta. Avendo due fratelli molto più grandi, non sapevo niente di bambini e, al momento, mi parve una cosa bella, ma non consiglierei mai di avere figli così presto. Io ho scoperto che non ho senso materno. Sono più figlia che madre. Alla fine, con mio figlio siamo più come due fratelli, abbiamo avuto momenti di complicità quando sentivamo la stessa musica o leggevamo gli stessi libri».
Lo lasciò ai nonni e venne in Italia. Suo marito disse che scappò con un ex gesuita.
«Davvero? A chi l’ha detto?».
Al settimanale «Oggi», nel 1986.
«Ma pensi... Ho avuto due prof. gesuiti, ma non sono scappata con nessuno».
Perché attira sempre leggende scabrose?
«Avviene a mia insaputa».
In «Finalmente ti scrivo» ha raccontato che, la mattina, Moravia s’affacciava nella sua stanza. Diceva: «Volevo vedere se c’eri ancora». E che le scriveva: «Tu fuggi, fuggi...». Davvero rischiava sempre di non trovarla più?
«Era come quando diceva: io morirò e tu sposerai un altro. Invece non ho sposato nessuno e non sposerò nessuno. Non so che effetto gli facesse vedere una donna con 46 anni meno di lui, così inquieta, un po’ errante, che andava veniva, stava tanto in Libano, nel Maghreb, a Gerusalemme. Non era gelosia e non ha senso parlarne ora che è morto da 31 anni. So che ha sempre rispettato la mia natura, io non ho mai voluto possedere nessuno e non voglio essere posseduta».
Nei vostri dieci anni d’amore si è molto favoleggiato di suoi presunti amanti.
«Ho fatto la mia vita senza occuparmi di quello che scrivevano. Io Alberto non l’ho mai ingannato. Anche lui era sempre circondato da donne, bellissime, famose. Amanti, non amanti? Che conta? Io ho sempre vissuto nel presente mai guardato al futuro. Invidiavo Alberto perché aveva una vocazione, la scrittura, io so solo quello che non mi va di fare e che non farò mai».
Che cosa non farà mai?
«Non vivrò con qualcuno perché ho bisogno di solitudine. Ho potuto farlo solo con Alberto. Io se entro in casa e sento che c’è qualcuno posso impazzire. Posso amare una persona, ma per me amare dei corpi è più facile che amare delle persone. Ho avuto molti corpi, ma ho amato pochi uomini. Ho sempre separato sesso e amore: sono due cose che a volte accadono insieme e tante volte no».
Quante volte si sono uniti sesso e amore?
«Forse, tre. Non farò i nomi».
Ho letto che, a metà anni ’80, il suo ufficio in Bompiani era tappezzato di foto di Klaus Kinski con dedica «a Carmen con amore».
«Ma non è vero. Mai avuto sue foto».
E il leader druso Walid Jumblatt?
«Era una cosa diversa da Kinski, francamente. Lo vedevo sempre in Libano, ho conosciuto sua madre, i suoi figli».
Non era lui l’amante druso di Georgette, il suo primo romanzo?
«Questo giochino alla francese dei roman à clé dove tutti cercano di identificare i personaggi non mi è mai piaciuto».
Hanno appiccicato nomi celebri a tutti gli uomini dei suoi libri: ai cinque di «Amori incompiuti»; all’«Ultimo amante», sposato e amante della protagonista per sette anni; a quello del «Diario dell’assenza», sposato pure lui...
«Mi succede anche nella vita. Mi fotografano con un uomo, anche gay, e scrivono “Carmen col suo compagno”. Una volta, sono andata dal compagno del compagno e gli ho detto: è meglio che sia il tuo compagno e non il mio».
Dovette pure scrivere una lettera al «Corriere» per chiedere a tutti di smetterla di associare Dominique Strauss-Kahn all’amante francese descritto nel suo «Gaston».
«L’ho fatto quando fu accusato di stupro. Conoscendolo, non mi sembra uno che ha bisogno di usare la violenza per conquistare una donna».
Dunque non era crudele, sadico, manipolatore come nel romanzo?
«Non mi rileggo: non ricordo “Gaston”».
Fu scritto anche di un flirt con Fiorello tornato single dopo Anna Falchi.
«Passava in motorino, si è fermato ed eravamo sui giornali».
In motorino andò anche con Bob Dylan.
«Quello è stato un caso: ero in piscina all’Hotel Aldrovandi, l’ho visto. Mi ha chiesto come andare in piazza del Popolo e ce l’ho portato. Da ragazzina, ascoltavo sempre Blowin’ in the Wind».
La sentenza di Moravia, «nessuno ti amerà come me», è diventata una profezia avverata?
«Ci sto pensando e mi viene da ridere. Secondo me, non sono facile da amare. Ci vuole coraggio per amare una donna libera come me. Ma credo di essere stata più amata di quanto ho amato io. Probabilmente sì, Alberto è la persona che mi ha amato di più. Si è esposto di più».
Ora, ha qualcuno?
«In che senso?».
Nel senso che non ha senso chiederle se è innamorata, ma al massimo se ha qualcuno che la ama e da cui fugge.
«Ho persone con cui ho complicità diverse. Innamorata non lo so. Se per innamorata s’intende fare gesti passionali o perdere la ragione, allora, forse, non lo sono mai stata».
Moravia diceva che lei viveva per il piacere e spesso era in collera perché la vita le negava il piacere che riteneva le spettasse di diritto. Cos’è questa incapacità di felicità?
«Non è incapacità di felicità. La parola felicità non è nel mio vocabolario. Come la parola serenità. Potrei aggiungere anche: normalità. Di Hollande che si definiva “normal”, scrissi: sei presidente, sei normale, sei mediocre. Io ho sempre cercato armonia, non felicità. Infatti, sono per l’eutanasia: non potrei vivere, per esempio, se perdessi l’uso delle gambe o della vista».
Ha preso informazioni sull’eutanasia?
«Mia sorella lavora in un’associazione che se ne occupa, a Madrid, ma io penso che il suicidio si possa fare anche da soli. Chiedo a tutti gli amici medici che succede se metti un po’ di questo o di quello. Ho capito che l’ingrediente chiave è il potassio e, sempre se sei ancora lucido e non devi andare in Svizzera e affidarti a qualcuno, ho capito come si fa, ma preferirei non dirlo».
Ride pure quando parla del suo suicidio.
«Ciò che non potrei mai fare è morire disarmonicamente, tipo buttandomi dalla terrazza».
Che cosa amava di lei Moravia?
«Anche lui era molto razionale. Avevamo tante affinità. Anche lui andava sempre al cinema di pomeriggio. E, da autodidatta per i noti problemi di salute giovanile, amava presentarmi come “mia moglie, la professoressa Carmen Llera”».
Davvero distrusse le lettere che le scriveva?
«Io distruggo tutto. Ho tenuto solo le foto dei nostri viaggi. Mi piace il vuoto, detesto accumulare. E non voglio ritrovarmi che, dopo, hanno usato le lettere chi sa come. Mi scriveva sempre, anche quando eravamo in casa».
Lei come ha iniziato a scrivere?
«È stato Alberto a spingermi, io non l’avrei mai fatto. L’ ultimo libro è del 2011. Preferisco leggere, non scrivere».
Ha scritto spesso libri brevissimi. Anche solo di 43 pagine.
«Sono per la brevità. Sintetica di natura».
Essenziale è anche la casa in cui vive.
«Ho poche cose, ma armoniose. Nessuno può venire a mangiare, perché il tavolo è solo per due e non ho pentole, mangio solo cose crude».
Se ripensa a Moravia, che cosa vede?
«Tutto. Le mani, gli occhi, la fronte. Mi piace vederlo in foto, ma non posso sentire la sua voce registrata. A uno spettacolo di Vittorio Sgarbi su Caravaggio, di colpo, si sente Alberto dire: “Hanno ucciso un poeta”. Parla di Pasolini. Mi sono sentita male. Proprio piangevo. Piangevo».