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 2021  novembre 02 Martedì calendario

Biografia dei Doors


Era la «summer of love» del 1967, l’estate della psichedelia e degli hippies, del Sergente Pepper e della partenza per San Francisco, California, con la raccomandazione di «mettersi dei fiori nei capelli». Qualche centinaio di km più giù, a Los Angeles, un gruppo al primo album pubblicava un singolo epocale. Un colpo secco del rullante, un organo Farfisa che parte con un riff indimenticabile – puro Dna rock – e i Doors conquistano le radio, le classifiche, i cuori di milioni di fan. Quel pezzo, in cui si mischiavano all’organo fughe di Bach e alla chitarra un’improvvisazione ripresa da My Favourite Things di John Coltrane, con sopra la voce dannatamente seduttiva di Jim Morrison, lo scrive un ragazzo di appena 21 anni.
Robbie Krieger, chitarrista dei Doors, ha pubblicato la sua visione di tutto quello che è successo in quel lustro sontuoso – 5 anni, 5 lp – in una biografia corposa (450 pag., ed. Rizzoli Lizard) che prende il titolo da una frase di quel brano, Set The Night On Fire. Per i fan dei Doors vecchi e nuovi, è un baccanale di racconti, aneddoti, falsi miti svelati e incredibili inediti, un’occasione per prolungare la leggenda di una delle band più importanti degli Anni 60 americani (per alcuni la migliore, includetemi pure). La magia dei Doors era di avere tre strumentisti che venivano da mondi diversi: all’organo Ray Manzarek, da Chicago, «quindi blues ma anche educazione classica voluta dalla madre», John Densmore alla batteria, «eravamo insieme nella jazz band del liceo», e Robbie alla sei corde, «venivo dal flamenco, dalle jug-bands folk, dai raga indiani». Tre totalmente diversi, un’alchimia strana e perfetta per accompagnare un frontman così singolare come Jim, un poeta prestato al r’n’r che sul palco spesso improvvisava, delirava, andava per tangenti tutte sue.
Il film di Oliver Stone
Ci parliamo in una call, gli mostro la foto dei tre (senza Morrison, che se ne era andato dieci anni prima) ospiti 40 anni fa a Mr Fantasy, si fa una risata, «me lo ricordo bene», e gli chiedo se la vecchia quote di Jagger,«chi ha vissuto davvero gli Anni 60 non può ricordarsi nulla», nel suo caso non valga, visto che ne racconta di ogni, ed è una bio fantastica.
Si fa un’altra risata: «Grazie, lo apprezzo, ma il merito è soprattutto di Jeff Lalulis (scrittore e uno dei cantanti dei Dead Kennedys). Io avevo cominciato a scriverla 25 anni fa, ma poi Ray e John hanno pubblicato la loro, sai com’è in questi casi, un sacco di ego feriti, e ho aspettato ancora. Jeff era un fan, si ricordava tante cose e molte me ne ha fatte ricordare, ha trovato articoli, è stato un processo lento, impossibile senza di lui».
Sicuramente il centro della dinamica dei Doors era il rapporto fra Jim e gli altri tre, ed è questo il motivo per cui ancor oggi Robbie è critico del film diretto da Oliver Stone, con Van Kilmer (secondo me, bella interpretazione, mica facile) nella parte di Jim: «Il film non ha tenuto conto della nostra vera dinamica insieme, di come scrivevamo, era tutta sugli eccessi di Jim, “the crazy stuff’”. Non che non ci fosse, ma c’era anche molto altro».
Jim era dionisiaco, aveva evidentemente un lato d’ombra e uno di luce, gli dico, poteva essere angelo e demone. «Sai all’inizio amava l’Lsd...», Mi sembra che non è che voi... «Sì, ma quando abbiamo formato la band eravamo già usciti da quella fase, ci siamo incontrati in un centro di meditazione, c’era pure il Maharishi due anni prima che lo scoprissero i Beatles. Jim era ancora dentro il periodo dell’acido, credo gli abbia aperto la mente per scrivere, ma la cosa buona era che non beveva. L’Lsd ti rende più mistico, sai, ma l‘alcool lo rendeva pazzo, non avevi voglia di stare in zona, ed è così che viene dipinto nel film. Ma da sobrio poteva essere la persona migliore del mondo. Diciamo che aveva una personalità complessa, con problemi profondi, non so se oggi lo chiamerebbero complesso di Edipo o cosa. Diciamo che Freud avrebbe avuto pane per i suoi denti».
Le droghe
Gli altri tre, consapevoli del suo talento, cercano in tutti i modi di riportarlo nei binari: quando una sera dormono a casa Manzarek e Jim gli sfascia tutta la collezione di lp di jazz e di classica Ray neanche si arrabbia,(«Jim vedeva in Ray una figura paterna, saggia, forse per questo lo provocava»); quando sveglia Robbie al telefono alle tre di mattina urlandogli «Sono Dio, e ti sto per gettare fuori dall’Universo!» lui si riaddormenta perplesso (anche se un po’ agitato); poi lo riprende a fatica mentre si getta, e lo faceva spesso, dal balcone tenendosi per una mano alla ringhiera («ma quella volta eravamo all’ottavo piano!»). A un certo punto è papà Krieger, il papà comprensivo e incoraggiante che Jim non aveva avuto (papà Morrison era un Ammiraglio molto critico nei confronti del figlio) che addirittura organizza con la band delle sedute di riabilitazione («negli Anni 60 non era consentito giudicare chicchessia per il bere o le droghe. Non era cool») per aiutarlo a smettere. Gli prendono delle guardie del corpo ma li convince a sbronzarsi con lui, gli organizzano un film per distrarlo e si ubriaca con tutta la troupe.
Papà Krieger è anche quello che dice loro «quello che vi serve è un buon avvocato penale», e gli consiglia quello che anni dopo li difenderà al processo di Miami, dove Jim viene accusato di oscenità in pubblico: «A Miami c’erano le elezioni, e qualcuno voleva mettersi in mostra. Jim ha detto “non siete venuti qui per la musica, vero? Volete che succeda qualcosa di pazzo, giusto?”, e ha cominciato ad aprirsi la zip. Ma non l’ha mai tirato fuori, l’atmosfera era surriscaldata, il palco è crollato, certo, e Jim era in mezzo al pubblico portando in giro la gente come un serpente, lo faceva spesso, ma alla fine bevevamo birre coi poliziotti, figurati. C’è stato di molto peggio in altri concerti, nel libro lo racconto».
Jim aveva detto «sono interessato a qualsiasi cosa che abbia a che fare con la rivolta, il disordine, il caos». Era un po’ come i Rolling Stones qualche anno prima, ogni concerto una rissa, scontri con la polizia. Vi piaceva l’idea? «Beh, fino a un certo punto, anche se quando spaccavano le sedie, le tiravano sul palco e quel genere di cose, diventava eccessivo. Ma i ragazzi negli Anni 60 erano molto repressi, non vedevano l’ora di sfogarsi».
La mistica del gruppo
Di fatto sta che il fascino, the mystique dei Doors ancora oggi sopravvive: «Io credo che sia per le canzoni. Quando vengono da me ragazzini di 12 anni, che hanno trovato i nostri dischi fra quelli dei genitori, non hanno nessuna idea di chi eravamo, di chi era Morrison, amano la musica». Era una generazione che ha scritto e suonato sotto l’influenza di molte droghe, sarebbe stata una musica così grandiosa anche senza? «Guarda, noi tre eravamo totalmente straight, al massimo qualche drink. Jim ha scritto molte delle sue cose al liceo, all’Università, si faceva, certo, ma le avrebbe scritte ugualmente. E no, non è andato a Parigi perchè voleva diventare un poeta e mollare il rock. Era un’assenza temporanea, noi a LA continuavamo a scrivere e suonare aspettando che tornasse. Da Parigi ci arrivavano notizie che lui continuava a salire sul palco, magari cantando del blues. Non era affatto “voglio fare il poeta”, per niente. La notizia della sua morte è stata shoccante per noi, certo. Abbiamo anche mandato là il manager, ma la bara era stata già chiusa. Naturalmente Ray ha usato questa cosa per dire che magari non c’era nessuno dentro, che poteva esser vivo da qualche parte. Ma questo è impossibile: il palco era la sua dimensione, fosse ancora vivo sarebbe là sopra, sul palco».
Un’ultima cosa: come diavolo puoi paragonare essere sul palco con il giocare a golf? Ci facciamo una risata. «Lo so che pensi siano opposte. Ma la cosa comune è l’automatismo. Nella musica tu vai, senza pensare, e così anche nel golf. Se pensi troppo non suonerai, e giocherai, bene. Devi avere la mente libera. E sì, penso di esser un chitarrista molto migliore di un giocatore di golf». —