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 2021  novembre 02 Martedì calendario

Intervista a Ou Hongyi, la Greta cinese


Nel maggio 2019, una minuta ragazzina di 16 anni si è piazzata davanti al cancello del palazzo governativo di Guilin, provincia del Guangxi, Cina meridionale, con grandi cartelli scritti a mano su pezzi di cartone. Ostinata, imperterrita, sola. Era la prima attivista cinese a condurre uno sciopero scolastico per il clima, ispirata dai Fridays for Future di Greta Thunberg. Due anni e qualche disavventura dopo, Ou Hongyi non ha mollato, studia a casa, ora è in Europa, e nel tempo libero pianta alberi.
È difficile essere un attivista in Cina?
«Molti pensano che se sei un’attivista in Cina, prima o poi scomparirai, o peggio. Ma io porto solo il messaggio di quella parte della Cina che ha a cuore il clima e il futuro del pianeta, perché checché se ne dica la società civile cinese ha a cuore il Pianeta, e si impegnano per aumentare la consapevolezza, anche attraverso la disobbedienza civile, proprio come ogni attivista in altre parti del mondo».
Lei è in Europa da un anno, di solito Pechino non è “gentile” con chi critica le politiche del governo, ed è stata definita la prima attivista verde della Cina, è anche l’unica?
«La Cina ha una lunga storia e tradizione di disobbedienza civile. Ad esempio, nel 2012, c’erano oltre 500 proteste al giorno, lo dice un rapporto del governo, ma sfortunatamente non è stato riportato abbastanza dai media. Quindi non sono sicuramente l’unica attivista per il clima in Cina».
Perché parla in particolare il 2012?
«Perché già nel 2012, metà delle 500 proteste quotidiane erano per salvaguardare l’ambiente. In Cina, anche se non sembra, c’è la consapevolezza che la natura è direttamente legata al benessere e va protetta. Quando le terre, i fiumi e l’aria sono inquinati, anche le popolazioni vengono devastate. Quando la natura e le persone vengono sacrificate per coloro che vivono lontano, magari nel Nord del mondo tra lussi e privilegi, i cinesi cercano di resistere attraverso la disobbedienza civile per ottenere il rispetto dei loro diritti fondamentali. Non dobbiamo dimenticare che l’economia, e lo sfruttamento delle risorse, sono fenomeni globali… Tristemente, il Nord del mondo, inteso come quello più ricco, cerca di puntare il dito contro “il cattivo di turno” per distrarre le persone dai problemi reali, per dividerle tra buoni e cattivi, e così insabbiare le vere urgenze globali».
Resta il fatto che gli occhi del mondo sono puntati sulla Cina, primo produttore di CO2. In molti sostengono che sarà colpa della Cina e dell’India se questa Cop26 sarà un fallimento. Cosa ne pensa?
«Non ci sono colpevoli e innocenti, soprattutto non ci sono innocenti. Però questa narrativa, ancora una volta, serve a tutti i leader a spostare il focus del problema, che resta quello della crisi climatica da un punto di vista antropogenico. Per esempio, i Paesi sviluppati spostano le industrie manifatturiere nei Paesi in via di sviluppo per sfruttare la loro terra, l’acqua e l’aria, la natura e le vite umane che sono lì da centinaia di migliaia di anni. Questo è un nuovo colonialismo. Allora chi è colpevole? Così non se ne esce più. Dovremmo invece parlare di energia sporca, di produzione globale di massa, di inquinamento prodotto dall’uomo. È una questione globale, che riguarda tutti, non un singolo Paese. Tra l’altro, chiediamoci anche un’altra cosa: chi beneficia della produzione industriale cinese? Non certo solo i cinesi…».
Cosa si aspetta dalla Cop26?
«Un esame di coscienza, che rifletta sui nostri privilegi e sulle risorse che stiamo utilizzando per ottenerli, una presa di coscienza sugli effetti che questi hanno sugli altri esseri umani, sul mondo vegetale e animale. Dobbiamo ridare vita a questo Pianeta, smettere di distruggere miliardi di anni di natura per pochi anni di benessere. Dobbiamo ammettere che la ricchezza proviene dallo sfruttamento della natura e delle persone, che le nostre mani sono sporche di sangue».
Secondo lei diritti e clima sono legati?
«Nell’Unfcc del ’92 si diceva che le politiche climatiche non avrebbero dovuto danneggiare l’economia. Questo documento, che ci ha portato alla Cop26, ha esplicitamente escluso la protezione e i diritti delle persone e della natura dalla sfera economica. È ovvio che la priorità deve essere cambiare il concetto stesso di economia».
Quindi?
«Per fermare questo disastro dovremmo arrivare a un nuovo concetto di economia, non in seguire i profitti con le politiche ambientali, e lottare per una giustizia climatica e una parità di diritti per tutti. Dovremo cambiare la nostra filosofia di vita, usare di più mani e cuore e meno il cervello, anche a costo di limitare lo strapotere tecnologico: non significa arrendersi se il rischio è l’estinzione. —