Il Messaggero, 2 novembre 2021
«Il genere neutro e le parole per dirlo»
«La riflessione sul politicamente corretto è necessaria, perché la lingua si evolve e cambia il nostro rapporto con la diversità ma la letteratura dev’essere libera di scandalizzarci, senza censura». Sociolinguista specializzata nella comunicazione digitale, saggista, traduttrice e ricercatrice all’Università di Firenze, Vera Gheno è una delle fonti più autorevoli e indipendenti per quanto riguarda il linguaggio. Dopo Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole (Effequ) e Parole contro la paura (Longanesi), Gheno classe 1975 – torna in libreria con Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole (Einaudi), un saggio in cui propone un metodo che si rivela una crasi fra «Platone e l’Aikido», un invito ad aver cura delle parole che usiamo, senza cedere alle provocazioni degli hater, firmando «un elogio del dubbio, della riflessione e del silenzio». Gheno non si nasconde, si proclama «trans-femminista» e con una «idea un po’ naif di famiglia, in cui si celebra solo l’amore». Alla fretta che rosicchia il nostro tempo ed esaspera i nostri tempi di reazione, Gheno oppone una salvifica lentezza: «Le parole non si consumano perché sono troppo nominate, ma perché sono nominate male».
Cosa pensa degli applausi in Parlamento dopo la tagliola per il ddl Zan?
«Uno spettacolo indecoroso, a prescindere se piaccia o meno quel ddl. Al festival Inquiete, appena conclusosi a Roma, l’ho definito con una parola sola, cringe. I ragazzini la usano per rendere un sentimento di schifo e di orrore».
C’è stata confusione sull’identità di genere?
«Moltissima. Avere un’identità di genere fluida non significa dichiararsi un giorno uomo e l’altro donna, come fosse un gioco. Io ho visto tanta malafede nel racconto mediatico».
Sui social network lei è spesso presa di mira. Perché?
«Per vent’anni ho collaborato con l’Accademia della Crusca e ogni mia dichiarazione veniva intesa come un’emanazione dell’istituzione. Una volta uscita fuori, ho potuto far emergere le mie idee, prendendo posizione».
Ovvero?
«Mi dipingono come una pericolosa estremista di sinistra. Io sono femminista e intersezionale, penso che chiunque possa aderire, non solo le donne e non soltanto chi è nato biologicamente donna. E sono trans-femminista. Ma tutto ciò non piace a quella parte di società, più o meno apertamente omo-bi-lesbo-transfobica. È un sentimento piuttosto diffuso che non ha ancora quello stigma sociale che meriterebbe».
Il suo elogio del dubbio, del silenzio e della riflessione è un gesto rivoluzionario?
«No, è una necessaria autodifesa, frutto di anni di esperienza online e di militanza attiva».
Ma essere femminista significa odiare gli uomini?
«Assolutamente no! Il femminismo come lo concepisco accoglie anche gli uomini e personalmente, sono una donna divorziata, banalmente eterosessuale e cisgender. La mia idea di famiglia si basa sull’amore e tutte le combinazioni valide sono lecite, a patto di essere felici».
Il Nuovo Devoto-Oli ha rivisto i lemmi uomo e donna. Era necessario?
«Sì, perché il vocabolario descrive una realtà linguistica già esistente. Il concetto di uomo e donna è cambiato moltissimo e ad esempio, si capisce quanto possa sessista l’espressione l’altra metà del cielo. Dobbiamo prendere atto che la realtà è mutata, sarebbe grave se i dizionari non ne prendessero atto».
Recentemente la Crusca ha affermato che allo schwa o l’asterisco, sarebbe preferibile il maschile plurale in tema di inclusività gender. È d’accordo?
«È vero che il linguista Paolo D’Achille parla dell’uso del maschile sovraesteso come un ottimo facente le veci di un neutro equilibrio, ma durante la presidenza precedente tanti testi erano stati affidati a Cecilia Robustelli, una delle maggiori esperte di gender studies e lei era di tutt’altro avviso».
Ma lei cosa ne pensa?
«Vengo dipinta come la pasionaria dello schwa ma sono molto cauta. Piuttosto, mi interrogo su quanto sia stata triggerante questa risposta a favore del maschile sovraesteso».
Triggerante, nel senso di innescare rabbia?
«Proprio così, c’era chi non aspettava altro. In ogni caso, tutti sanno che la lingua fa il suo corso, toccherà alle generazioni future trovare una soluzione. La storia dell’uomo neutro è tutta da scrivere ma in tanti paesi si stanno ponendo le nostre stesse domande».
Intanto c’è ancora chi si oppone all’uso di femminicidio. Perché?
«Il femminicidio colpisce un nervo scoperto e chi dice che si dovrebbe usare maschicidio, è in mala fede perché è un fenomeno molto più raro. Il femminicidio è come un elefante rosa in una stanza e chi non vuole usarlo nega la gravità di questa palese emergenza culturale».
Gheno ma il politicamente corretto è necessario o si rischia di sconfinare nella letteratura pulitina, citando la definizione della giornalista Loredana Lipperini?
«Penso che una riflessione sul tema sia sacrosanta. Ma dobbiamo stare attenti alle derive e alle censure, senza cedere alla tentazione di epurare tutto. Per questo motivo sono d’accordo con la Lipperini, la letteratura dev’essere libera di rappresentare gli aspetti migliori e quelli più sordidi dell’umanità».