Corriere della Sera, 1 novembre 2021
I disobbedienti del Reich
Chi è Rudolf Jacobs? Nel libro mastro della storia, l’anti Eichmann: l’ostensione più plateale d’un debito di disonore. Perché la breve vita straordinaria di questo trentenne capitano della Marina nazista rovescia con il gesto finale, la morte in battaglia dalla parte giusta, l’estrema banale difesa del ragioniere dell’Olocausto e di tanti boia a lui simili, assassini in divisa d’ogni tempo e d’ogni latitudine: ero solo un soldato, eseguivo ordini.
Il capitano Jacobs esegue gli ordini, sì, ma quelli impartiti dalla sua incoercibile coscienza. E quegli ordini lo portano assai lontano dalla disciplina hitleriana, in conflitto con i propri compatrioti: incrinando l’ineluttabilità della legge del sangue denunciata magistralmente da Johann Chapoutot, la «buonafede» criminale di medici pronti a eliminare bambini ebrei quali «agenti di contaminazione», la «volonterosa» ferocia che Daniel Goldhagen individua nel tedesco comune, diremmo della strada, e nella conseguente collaborazione «popolare» allo sterminio che si proietta, fosco punto interrogativo, su settanta milioni di cittadini del Terzo Reich negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.
Scegliere diversamente si poteva, disobbedire si doveva, sino a far prevalere una consanguineità universale, l’appartenenza superiore a un’unica razza, quella umana. Nel nome di essa, il capitano Jacobs, «il tedesco buono», combatte lungo la Linea Gotica contro i tedeschi cattivi e contro i repubblichini loro manutengoli (altro che «italiani brava gente») in una metastoria dove Bene e Male prescindono dall’anagrafe attingendo all’epica; e battendosi viene ucciso, nel tentativo di realizzare un piano di battaglia da lui stesso messo a punto con i suoi compagni della brigata partigiana Muccini: l’assalto all’albergo Laurina di Sarzana, che in quel 3 novembre 1944 è la caserma dei fascisti torturatori di civili, una delle tante Villa Triste dei «briganti neri» asserviti ai connazionali di Jacobs.
Sono passati giusto settantasette anni. E questa formidabile parabola di redenzione personale mantiene la sua carica di riscatto collettivo. Se basta uno Schindler, deve bastarci anche un Jacobs per aprire uno squarcio di speranza in una dimensione comune, per dirci che, nel libro mastro di cui sopra, i debiti sono sempre individuali, così come le scelte.
Storia già narrata, peraltro, questa del capitano della Kriegsmarine , da racconti e saggi, lungometraggi e romanzi, e persino celebrata, perché «l’uomo che nacque morendo» (è il titolo scelto dal regista Luigi Faccini nel suo film del 2011) ha una targa nella città d’adozione e di sacrificio, Sarzana, e, sebbene con gran ritardo, è stato onorato anche nella città d’origine, Brema. Eppure, è storia tuttora inedita e da narrare ancora e ancora, arricchendola vieppiù di volti e nomi, di lacerti di tracce che riportano a tanti Jacobs ignoti, tuttavia vividi nella memoria della guerra di Liberazione, in ciò che resta di tanti personalissimi sentieri di nidi di ragno. È dunque una sfida impegnativa, questa, raccolta da Carlo Greppi, trentanovenne ricercatore torinese, con Il buon tedesco , appena pubblicato da Laterza. Quel segaligno ufficiale, che i compagni d’allora ricordano come «un uomo triste, un uomo ferito», destinato a non rivedere mai più moglie e figlioletti in patria, non fu solo all’appuntamento con la storia, non fu un’eccezione per quanto commovente: centinaia e centinaia di tedeschi e austriaci (era austriaco il suo attendente, Paul, o forse Kurt, che con lui disertò e accanto a lui combatté lungo le alpi Apuane), forse mille soltanto in Italia, forse di più, hanno lasciato le loro tracce, spesso labili eppure sempre conficcate a fondo, nell’istante della scelta di campo, dentro la memoria delle formazioni partigiane cui si unirono e che si opposero ai nazifascisti nello scorcio più cruento. Perché? «Perché ho visto il male che hanno fatto i tedeschi», spiega al telefono, ancora commosso, il novantaseienne Heinrich «Enrico» Rahe, ( Überläufer , disertore, come Jacobs e sullo stesso fronte) il quale, nota Greppi, parla dei «tedeschi» come se lui stesso non lo fosse: «Ho visto quando i tedeschi ammazzavano le donne e i bambini».
Dunque, la scelta individuale diventa salvezza per tanti Hans, Kurt, Wilhelm: piccoli soldati che mettono il fazzoletto rosso sulla giacca bruna volgendo il mitra dall’altra parte, e che Greppi documenta con puntiglio, appigliandosi a frammenti di lettere, comunicazioni fra comandi partigiani, registri d’ospedale appena intellegibili o di uffici municipali a malapena rimasti in piedi. Ma è una salvezza morale che costa una scissione profonda: «in Alemania», per tanto tempo, nessuno ha mai ringraziato per la sua scelta il disertore Heinrich «Enrico» o quelli come lui, anzi, «hai sparato sui tuoi Kameraden?», gli chiedevano attoniti. C’è un coraggio che forse fa davvero rinascere, ma richiede di morire due volte, e lo sa bene Erika von Brockdorff salendo alla ghigliottina nel 1943, quando scrive alla figlioletta «cercheranno di mettermi in cattiva luce davanti ai tuoi occhi».
Così noi celebriamo il nostro «buon tedesco», filo rosso visibile attraverso tante storie sfocate eppure struggenti, più e meglio di quanto abbiano fatto a lungo i suoi compatrioti (la vedova attese anni chiedendo una pensione). «Darei la mia vita pur di abbreviare di un solo minuto questa guerra insensata», dice lui ai partigiani, quando ormai ha tratto il suo dado, forse spinto anche dall’eco delle stragi di Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo Monti, Vinca, altra ignominia sulla sua bandiera di nascita. «Rudolf è stato veramente un eroe, ha voluto morire per la sua vera patria tedesca, per riscattare la dignità di un popolo travolto dal nazismo», scrive il suo comandante partigiano già nel 1945, quando il mito del capitano disertore comincia a formarsi nelle valli appena liberate. Un eroe dell’Europa che sta nascendo. E che, assaltando con nove compagni il fortino di chi quell’Europa voleva sottomettere, muore tradito dalla sorte, perché la sua arma si inceppa. Eppure, della sorte si fa beffe, perché «alla stella sotto cui nasci, e che pretende di accompagnarti tutta la vita incurante della tua volontà, le spalle le puoi sempre voltare».