Corriere della Sera, 1 novembre 2021
Rinnovabili, perché l’Italia è così indietro
Brindisi 2021: un’area inquinata da polveri di amianto, da bonificare da 5 anni, e da riconvertire. Arrivano finanziamenti privati per installare sul terreno pannelli solari, ma la Provincia si oppone: «Non si può fare perché il terreno è di pregio e fa ricorso al Tar, che le dà ragione. Della bonifica di cui sopra si sono tutti dimenticati. Prodigi di un Paese sommerso da una lunga fila di autorizzazioni e dove vengono interrogati tanti enti, anche per produrre energia da fonti rinnovabili su cui siamo tutti d’accordo. A parole.
I cantieri arenati da anni
Entro il 2030 dobbiamo realizzare 70 gigawatt da fonti rinnovabili. Oggi ne facciamo meno di un gigawatt all’anno (0,8 Gw), nonostante le richieste di connessione a Terna siano per 146 gigawatt, più del doppio di quelle che dobbiamo fare. Al netto di quelle che già in partenza non hanno i requisiti, perché si produce così poco? Partiamo dalle autorizzazioni. Per approvare un parco eolico o fotovoltaico servono cinque passaggi autorizzativi: 1) Via ministero Ambiente; 2) Via regionale; 3) Conferenza dei servizi 4) L’autorizzazione per l’impianto specifico; 5) Licenza di officina elettrica. E poi altri sei per connetterlo alla rete di Terna. Tempo: sei, sette anni. Quando va tutto bene. Perché Regioni, Comuni, Province, spesso bloccano i progetti non graditi ai loro cittadini. Solo in Puglia 396 impianti piccoli e grandi sono fermi da 8 anni. Nel Lazio 126, per 2,2 miliardi di investimenti tra Viterbo e Latina, sono stati fermati dal ministero della Cultura. Ma la Regione ha appena deciso di metterci del suo con il completo blocco ai nuovi impianti in attesa di una riorganizzazione delle aree su cui installarli.
Lo Stato contro sé stesso
Quando non c’è accordo, chi deve decidere è Palazzo Chigi. Sul suo tavolo ci sono oggi 40 progetti per 6 gigawatt, autorizzati dal ministero dell’Ambiente e bloccati dal ministero della Cultura. Quali siano e perché, non è dato sapere: «Si tratta di informazione sensibile», dice la portavoce. Chiedere quali sono i criteri di valutazione delle Sovrintendenze è esercizio vano. C’è una griglia tecnica, osservano dal dicastero guidato da Dario Franceschini, ma alla richiesta di indicazioni sulle variabili prese in considerazione la risposta è sempre la stessa: «Dipende». Alzare una pala eolica può complicare il volo degli uccelli, o deturpare la vista dei nuraghi, come è successo in provincia di Sassari, dove è sfumato l’investimento da 130 milioni della Erg. La stella polare dovrebbe essere la direttiva europea sul paesaggio. Ma il paesaggio è un concetto filosofico: con buona approssimazione potremmo definirlo come la sintesi dell’interazione tra uomo e ambiente. Se ci sono progetti che vanno a impattare sulla vista da diverse alture, si segnala dunque la sua trasformazione, e il voto è negativo.
Le aree vincolate e la discrezionalità
Si aggiungono le aree vincolate, dove non si può far nulla, e nessuno pensa di metterci il becco, anche quando la ricognizione è datata. Per questo è stata prevista una Sovrintendenza speciale con una segreteria tecnica di 35 esperti: archeologici, avvocati, ingegneri. Prenderanno servizio da novembre, con il compito di valutare dove mantenere il vincolo e dove rimuoverlo, anche in considerazione del fatto che questi impianti non sono permanenti. Bisogna poi fare i conti con i territori e la pressione del consenso, che determina un innesco di relazioni, voti, dunque poteri ostativi. Difficile per un sindaco o un presidente di Regione rivincere le elezioni se approvi progetti che i cittadini non vogliono. Eppure, dovrebbero contare solo i requisiti che la natura impone: le mappe dei venti, l’irraggiamento solare, oppure la densità dei pannelli installati in una determinata zona.
Lo spreco a norma di legge
Un altro ostacolo che scoraggia gli investimenti è il divieto di accumulo: la legge impedisce al distributore di energia di stoccare quella prodotta da fonti rinnovabili. Vuol dire che quando c’è molto vento e produci più energia di quella che ti serve, quella in eccesso la butti via, causando da una parte un mancato ritorno sull’investimento, e dall’altra una riduzione della quantità di energia disponibile. Le conseguenze sono due: 1) una scarsa partecipazione alle aste bandite da Terna per i grandi impianti, tant’è che nel 2019 i primi tre bandi sono andati deserti, e si è dovuti arrivare al quarto per raggiungere una presenza del 24%. In più con le norme attuali vengono ammessi a gara solo gli impianti da realizzare su terreni fortemente degradati. 2) Aumenti dei prezzi medi di assegnazione: l’eolico è passato da 57 euro a megawattora a 68. Alla fine la ricaduta di una programmazione non definita si scarica sulla bolletta. Già da ora il costo delle rinnovabili è più vantaggioso delle altre fonti di produzione di energia elettrica: 45-50 euro a megawattora con il solare, 50-60 con l’eolico, contro il picco dei 140-145 del gas. Mentre non si riesce ad aggiudicare le aste e si butta via l’energia che non è possibile stoccare, il costo del metano che importiamo soprattutto da Russia e Stati Uniti ci ha costretti a stanziare due miliardi per ridurre le spese a famiglie e imprese.
Eolico in mare
Le esperienze del Nord Europa stanno spingendo le piattaforme off shore. Al largo delle coste di Puglia, Sicilia e Sardegna, sono state fatte richieste per 17 gigawatt. Ma tutto è sospeso in una lunga catena di punti interrogativi. Gli impianti si faranno solo se Terna costruisce gli elettrodotti che collegano le pale alla terraferma, e Terna i soldi li investe solo se è sicura che gli impianti poi si faranno. Una garanzia che nessuno è in grado di dare poiché gli enti locali spesso si mettono di traverso dicendo: «Per il nostro fabbisogno non servono grandi impianti». Tutte queste incertezze spiegano perché in tanti fanno richiesta, ma alla resa dei conti in pochi investono. Infatti nel 2020 è stato installato l’1,3% delle domande di autorizzazione partite nel 2014. Nonostante il piano da 18 miliardi in 10 anni appena annunciato da Terna, non è così facile mettere a fattore comune gli investimenti dei privati con le grandi dorsali elettriche del Paese. Di tempo però ce n’è poco, e se passa in discussioni, i 5,9 miliardi del Pnrr previsti per le energie rinnovabili (soldi per la gran parte prestati), o tonano indietro, o rischiamo di dilapidarli producendo futuro debito.
Ora procedure più veloci?
Il ministro per la Transizione ecologica Cingolani ha dato alle Regioni sei mesi di tempo per individuare le aree idonee dove mettere gli impianti. La gran parte però ha normative ferme ai primi anni Duemila, senza aver censito alcunché. Ma quali caratteristiche devono avere queste aree? Vanno individuate fra quelle già sfruttate ma deteriorate, nei siti industriali abbandonati, fra i terreni agricoli dimenticati. Uno studio del Politecnico stima che l’installazione di 30 gigawatt tramite impianti di grande taglia richiederebbe l’uso di 460 chilometri quadrati di territorio, che corrispondono a meno del 4% delle aree agricole inutilizzate. Bisognerà vigilare con attenzione, perché gli speculatori sono già in pista: chi sa in anticipo quali sono i terreni che finiranno in elenco, li compra a poco per poi rivenderli all’operatore che ci costruirà un impianto. Sul fronte delle autorizzazioni, con il decreto Semplificazioni sono più veloci; con il Pnrr, invece, è stata introdotta una «corsia preferenziale» che semplifica tutte le procedure. I tempi quindi «dovrebbero» passare dai 6 anni di oggi a 260 giorni. Nulla però impedirà al ministero della Cultura di dire «Qui no». O ad un ente locale opporsi. Perché tutti vogliono un mondo più ecologico, ma non sotto casa.