Corriere della Sera, 1 novembre 2021
La Francia secondo Eric Zemmour
Alla vigilia della semifinale dei Mondiali 2014 tra Germania e Brasile, Eric Zemmour previde una netta sconfitta dei tedeschi, ormai contaminati dal sangue arabo e africano, e non più «dolicocefali biondi»: termine tratto dalla pubblicistica razzista di inizio Novecento.
Tra dieci giorni, Zemmour dovrebbe annunciare la propria candidatura alla presidenza della Repubblica francese. Si vota nella primavera del 2022. Ma il personaggio pare uscito dagli anni Venti del secolo scorso.
Di solito si racconta che Jean-Marie Le Pen, il fondatore della dinastia che ha ricostruito l’estrema destra europea, sia figlio di Vichy, di Pétain, della Francia collaborazionista. Ma è una definizione ingenerosa. Orfano di padre, affondato su una mina con il suo peschereccio, a sedici anni Jean-Marie decise di combattere i nazisti e si presentò a una figura leggendaria della Resistenza, il colonnello Valin – si chiamava in realtà Henri de la Vaissière —, che gli disse: «Ragazzo, torna da tua madre». Le Pen è certo un reazionario, ma la sua destra è semmai quella dell’Algeria francese e dell’Oas, l’Organizzazione dell’esercito segreto che considerava De Gaulle un traditore (Jean-Marie aveva combattuto in Indocina e in Algeria).
Eric Zemmour viene da una famiglia di ebrei algerini. Si definisce «ebreo berbero». Eppure è accusato di venature antisemite. All’apparenza, un enigma della storia e della politica. Un leader amato dai giovani – «Génération Z» si chiamano i suoi attivisti – che riapre ferite secolari: dubita dell’innocenza di Dreyfus, cita Maurras e Barrès, evoca le pulsioni parafasciste della Francia tra le due guerre, arriva a elogiare Pétain che «sacrificò gli ebrei stranieri per salvare gli ebrei francesi»; il che oltretutto è falso. Ci si chiede come possa un ebreo criticare la scelta di Chirac, il primo capo dello Stato a riconoscere le responsabilità della Francia nella retata degli ebrei al Velodromo d’Inverno. Eppure Zemmour l’ha fatto: secondo lui Chirac sbagliò a chiedere perdono per la tragedia del Vél d’Hiv, il cui principale responsabile, il capo della polizia Réné Bousquet, antisemita fanatico, fu legato sino alla morte (venne ucciso nel 1993 con cinque colpi di pistola da un folle autoproclamatosi giustiziere) da un’amicizia fraterna a François Mitterrand, mai rinnegata neppure dopo la sua elezione all’Eliseo. Quanto a De Gaulle, per lui il regime di Vichy era «nul et non avenu»: come se non fosse mai esistito. Per Zemmour, invece, i funzionari collaborazionisti «non sono colpevoli, perché avevano il dovere di obbedire allo Stato».
«Agli ebrei tutto in quanto persone, nulla in quanto nazione»: è il motto dei rivoluzionari del 1789 che Zemmour recupera, come a dire che esistono solo individui e non «corpi politici», non altre identità compatibili con l’identità francese. Per tradurre quel principio nei nostri giorni, Zemmour è arrivato a dire che Gabriel, Arié e Myriam, i tre bambini ebrei assassinati dal terrorista islamico Mohammed Merah a Tolosa, non erano veri francesi, ma «stranieri da vivi che hanno voluto restare stranieri da morti», in quanto seppelliti in Israele. Del resto, Zemmour ha un’autentica fobia per i nomi «non francesi»: dopo aver rimproverato Rachida Dati, ex ministra di Sarkozy, per aver chiamato la figlia Zhora, ha criticato lo stesso Sarkozy per aver dato alla figlia avuta da Carla Bruni un nome italiano: Giulia.
I leader della comunità lo detestano. Francis Kalifat, presidente del Consiglio delle istituzioni ebraiche di Francia, ha dichiarato a Le Monde: «Non un solo voto ebreo deve andare al candidato potenziale Zemmour». Però lo stesso giornale ha intervistato ebrei che, pur preferendo restare anonimi, per «il candidato potenziale» hanno espresso simpatia: il problema, dicono in sostanza, non è la memoria storica; il problema oggi è l’immigrazione islamica, la «sostituzione etnica», di cui Zemmour addita il simbolo nella stazione del metro delle Halles, dove il sabato pomeriggio i figli degli immigrati calano dalla banlieue nel ventre di Parigi.
Ovviamente, Zemmour non farà campagna sugli anni Venti. Si presenterà come l’erede dell’ala destra del gollismo, «la destra popolare e bonapartista, che tiene insieme i ceti popolari e la borghesia patriota». Programma: blocco dell’immigrazione, fine dello ius soli e dei ricongiungimenti familiari, «preferenza nazionale» per casa e lavoro. Più formule vaghe che però a molti francesi piacciono, tipo «Napoleone è nostro padre, il Re Sole nostro nonno, Giovanna d’Arco nostra bisnonna».
Nei sondaggi Zemmour è dato al 17%, un punto sopra Marine Le Pen. Questo non dispiace a Jean-Marie, che nel gennaio 2020 ha incontrato Eric insieme con la figlia di Ribbentrop, il ministro degli Esteri della Germania nazista. Nella realtà, nessuno crede che Zemmour possa diventare presidente. Sembra improbabile che riesca ad arrivare al ballottaggio. Non è detto neppure che la sua candidatura regga fino al voto: Zemmour ha alle spalle due condanne per istigazione all’odio razziale e religioso, più spiacevoli denunce per aggressioni sessuali. Però rappresenta la novità di questa campagna elettorale. E viene preso sul serio dal più aggressivo uomo d’affari francese: Vincent Bolloré.
La sua tv, la CNews, gli ha dato molto spazio come opinionista: con la striscia quotidiana di Zemmour è passata dallo 0,5 al 5% di share. Ora Bolloré ha comprato i giornali del gruppo Lagardère, e come prima cosa ha licenziato il direttore di Paris Match, reo di aver messo in prima pagina una foto delle effusioni in mare tra Zemmour e «la sua strettissima consigliera» (così nel titolo) più giovane di 35 anni. Sarà interessante vedere l’atteggiamento del quotidiano della destra francese, Le Figaro, dove Zemmour è stato per tredici anni redattore politico, per poi collaborare a lungo al Magazine. Nel 2017, però, Le Figaro appoggiò Macron. Il presidente ha ancora buone possibilità di essere rieletto; ma rischia di regnare su un campo di macerie, e senza la maggioranza in Parlamento.
(E comunque, ai Mondiali la Germania non dolicocefala sconfisse clamorosamente il Brasile 7 a 1 in casa sua).