Corriere della Sera, 1 novembre 2021
La paura dell’eterno fascismo
All’indomani del rapporto Krusciov sui crimini dello stalinismo Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, diede sull’argomento una famosa intervista, nella quale a un certo punto si legge testualmente: «Stalin non commise solo errori ma fece anche delle cose buone» (c.vo mio). Erano parole dette per spiegare con un ovvio dato di fatto la popolarità di cui a suo tempo aveva goduto il dittatore sovietico.
Ora mi chiedo: se – a proposito di colui che era responsabile dell’assassinio di alcuni milioni d’innocenti – una persona avveduta come Togliatti poteva, senza che nessuno lo accusasse di voler impiantare il gulag in Italia, dire una verità lapalissiana come questa (ad esempio aver contribuito alla vittoria sul nazismo, sia pure dopo essercisi alleato, era stata certamente una «cosa buona»), perché mai, invece, dire di Mussolini che «ha fatto anche delle cose buone» — come hanno sempre detto e dicono ancora oggi milioni di nostri concittadini – dovrebbe essere la prova allarmante che gli italiani non hanno mai smesso di essere fascisti, e che perciò l’Italia intera corre sempre il rischio di divenire tale?
Precisamente questa, come si sa, è la convinzione cara a una certa pubblicistica democratica, in modo particolare di sinistra, ripresa con grande vigore polemico negli ultimi tempi in molti discorsi, articoli, prese di posizione varie nonché da almeno una decina di libri.
Sempre per ribadire la tesi di una sorta di fascismo eterno la cui minaccia graverebbe in permanenza come una spada di Damocle sulla nostra testa.
Ma negare la realtà non ha mai fatto bene a nessuno: tradisce solo un’intima insicurezza nelle proprie idee e nei propri valori. Dunque si può e si deve tranquillamente ammettere che, sì, il fascismo fece anche delle cose buone (e si può aggiungere che sarebbe stata un’impresa davvero strepitosa non riuscirne a fare neppure una nella bellezza di venti anni?). La creazione dell’Iri e di Cinecittà, la legge bancaria del ’36, la bonifica di centinaia di migliaia di ettari di terreni paludosi, le colonie marine, il rafforzamento di tutte le precedenti forme previdenziali, l’introduzione degli assegni familiari, l’istituzione del liceo classico, furono tutte ottime cose. E anche l’idea che i treni debbano arrivare in orario non è certo in sé da buttar via.
Ma che cosa vale tutto ciò di fronte all’altro lato della medaglia? Di fronte al non potere senza permesso stampare un volantino o convocare una riunione pubblica per discutere di una qualunque questione, al non poter abbonarsi a un giornale straniero di proprio gusto o organizzare un sindacato? Che cosa vale di fronte all’essere guardati con sospetto se invece di un buon cattolico si è per caso un valdese, alla possibilità di essere fermati e arrestati a discrezione di qualunque poliziotto, di dover restare sempre zitti e buoni, pena un pestaggio o un litro di olio di ricino, di fronte al primo idiota che indossi una camicia nera? all’obbligo di dover essere sempre d’accordo in pubblico con quello che pensa o decide Lui? E che cosa valgono oggi, retrospettivamente, tutte le «cose buone» di cui si è detto sopra di fronte alle leggi razziali, alla decisione di allearsi con le belve per fare una guerra, per giunta senza neppure curarsi di disporre dei mezzi necessari, di fronte alle distruzioni senza pari abbattutesi di conseguenza sulla Penisola?
Pensare – come sembrano pensare molti democratici – che il semplice fatto di dire che il fascismo ha fatto «anche delle cose buone» equivalga ad essere dei criptofascisti, e che una tale opinione diffusa testimoni di un pericolo fascista, pensare ciò implica logicamente due conseguenze entrambe inaccettabili. La prima è l’idea che si può essere antifascisti solo credendo che la storia sia sempre tutta bianca o tutta nera, cioè credendo una cosa che nel novanta per cento dei casi è una palese idiozia, e che pertanto se del fascismo non si ha una visione come del male assoluto, di una sequela ininterrotta di errori e di malefatte (una visione, sia detto tra parentesi, che nessuno storico serio ha mai avuto, ma neppure un grande politico come il già citato Togliatti: si veda il suo celebre «Corso sugli avversari» del 1935), allora vuol dire essere già dalla sua parte.
La seconda conseguenza inaccettabile è che si mostra così di non avere in realtà alcuna fiducia nell’amore e nel gusto per la libertà degli italiani. Si mostra infatti di credere che alla gente non importerebbe poi molto godere o no della libertà, non importerebbe molto di poter votare, di eleggere un Parlamento, di essere libera di leggere un giornale ostile al governo e di altre quisquilie del genere, dal momento che, si pensa, il fatto in quanto tale di essere privati di tutto ciò – come per l’appunto a suo tempo fece il fascismo – questo fatto da solo non le farebbe in realtà né caldo né freddo. A convincere gli italiani ad abbracciare l’antifascismo, insomma, varrebbe solamente la convinzione che il regime mussoliniano sarebbe stato dal primo all’ultimo giorno una specie di arca di nequizie senza nome.
Una parte dell’opinione democratica del nostro Paese eredita questo punto di vista dai giorni lontani dell’immediato dopoguerra. Quando cioè i partiti del Cln, sconosciuti ai più, e consapevoli della debole legittimazione con la quale si affacciavano alla guida del Paese, di un Paese per giunta totalmente digiuno di cultura democratica, non potevano permettersi alcuna distinzione, avendo solo l’ovvia necessità di presentarsi come i rappresentanti del bene in contrapposizione al male. Ma è davvero così ancora oggi? E se per caso lo fosse – cosa che personalmente mi ostino a non credere – non equivarrebbe ciò alla più clamorosa ammissione di fallimento della democrazia italiana, di tutte le sue istituzioni, della sua scuola, di tutti i suoi partiti, di tutti i suoi protagonisti? Davvero la Repubblica deve avere paura ancora oggi, dopo settant’anni, del ricordo della bonifica pontina e delle trasvolate di Italo Balbo?