la Repubblica, 1 novembre 2021
Marco Tullio Giordana parla del suo film su Yara
S’intitola Yara il film che ho girato lo scorso inverno, in piena pandemia. Racconta del clamoroso fatto di cronaca avvenuto dieci anni fa e ancora vivo nella memoria di tutti: il sequestro e l’assassinio di una ragazzina di 13 anni, Yara Gambirasio, ritrovata dopo tre mesi di illusioni in un campo di Chignolo Po, Bergamo, a pochi chilometri dall’abitazione dei genitori. Il film non è ancora uscito sulla piattaforma Netflix che già scattano le polemiche “a prescindere”: come si può fare spettacolo su un caso così tragico, come osate? Come se il cinema, la letteratura e l’arte in genere non avessero a trattare proprio questo elemento nero e disturbante, come se la soluzione fosse rimuovere, censurare, voltarsi dall’altra parte. O sbrigarsela senza neanche guardarlo. “Non l’ho visto e non mi piace” diceva Flaiano per sbeffeggiare l’indignato critico dilettante, mai immaginando che sarebbe diventato il motto del web.
Per l’enorme risonanza che il delitto ebbe sui media, la vicenda di Yara Gambirasio è diventata uno di quei casi che tutti pensano di conoscere e di cui parlano schierandosi in tifoserie inopportune, caricatura ormai delle controversie pavloviane del nostro Paese, sport e politica in primis. Non importa conoscere i fatti, averli studiati a fondo. L’importante è avere subito un’opinione o, meglio, uno slogan da scagliare per accapigliarsi con qualcuno, il nemico sempre in agguato. Per questa ragione quando il produttore Pietro Valsecchi, cremasco come me, mi propose questo film che aveva in mente da anni, l’istinto fu di tirarmi indietro. Siamo entrambi di quelle parti e la vicenda ci aveva scosso. Presumevo anch’io di ricordare com’erano andate le cose, più o meno. È appunto quel “più o meno” che marca la differenza con la vera contezza dei fatti, con le testimonianze dirette o de relato, con le necessarie cognizioni giuridiche. Un “più o meno” che, nella prospettiva di mettere in scena quella tragedia, non si può ammettere a meno di voler fare gli sciacalli.
Leggendo l’accurata sceneggiatura scritta da Graziano Diana con Giacomo Martelli, ho trovato molte sorprese. Secondo un classico schema della detection la storia inizia col ritrovamento del corpo da parte di un aeromodellista. Sono passati tre mesi dal sequestro e le vicende pregresse sono rapidamente riassunte in un flashback che racconta le ricerche, a lungo infruttuose, disposte dal pm Letizia Ruggeri. Finché non si rientra nella naturale successione diacronica degli avvenimenti e, trovato il corpo di Yara, si cerca l’ignoto assassino. Ma come, dove? Esaminando i resti si scopre un Dna diverso da quello della vittima. La Ruggeri ha l’intuizione di puntare su questo decisivo elemento e far ripartire le indagini da lì.
Il film prosegue con l’altalena dei risultati, i contrasti interni al tribunale, le continue interferenze dei media, i politicanti locali che attaccano violentemente la Ruggeri e vogliono il mostro sbattuto in prima pagina (nella fattispecie un incolpevole muratore marocchino) inneggiando alla giustizia fai-da-te… Ma non voglio raccontarvi il film. Non penso, tra l’altro, che lo spiedo narrativo sia la cosa più importante. Certo bisogna che la sceneggiatura sia puntigliosa, ma un film dovrebbe soprattutto evocare un flusso di emozioni guidato dalle immagini, dalla loro composizione, dal loro ritmo, dalla musica o dai silenzi (anch’essi musica) e, soprattutto, dalla capacità degli attori di “trasmettere”, come stazioni radio, come onde ipersensibili al confine della telepatia. Non tanto con le battute del testo (troppo facile e didascalico!) ma attraverso ciò che le parole vogliono nascondere, eludere, camuffare. Non è un programma di governo, sia chiaro, è solo come cerco di lavorare io.
Quando si tratta di storie vere ci vuole molta cautela. Intanto perché tocchi la sensibilità di persone che hanno sofferto e che continuano a soffrire. Poi, perché la potenza persuasiva di un film – sacrosanta quando rimette in discussione verità di comodo – può diventare micidiale quando invece contrabbanda – per superficialità, disinvoltura o, peggio, malafede – manipolazioni o partiti presi. In tutti i film che mi è capitato di realizzare su cold case o vicende controverse – come quelli su Pasolini, sull’Heysel, Piazza Fontana, Peppino Impastato, Lea Garofalo – mi sono sempre preoccupato di studiare a fondo le carte e non contare troppo sulla mia memoria. I ricordi sono ingannevoli e anche ascoltare i diretti interessati può essere talvolta fuorviante. Anche quando è passato poco tempo, preferisco immaginare la vicenda come accaduta in un’epoca remota, senza più testimoni che possano dirmi com’è andata. Preferisco basarmi sui documenti: carta canta, villan dorme.
Controllo i verbali d’interrogatorio, gli atti processuali, le sentenze, i libri, i resoconti dei giornali, ma li studio come fossero collocati nella preistoria, ogni rabbia o passione spenta, detestando per indole ogni illecita morbosa curiosità. D’altronde questa è la lezione di maestri come Anghelopulos, Rosi, Costa-Gavras, Ken Loach, Peter Watkins, Marcel Ophüls, Martin Scorsese, Yashuiro Ozu, Kenij Mizoguchi, Oliver Stone, Steven Soderbergh e tanti altri il cui elenco sarebbe sterminato. Per non dire degli antecedenti letterari, dei quali vorrei citare giusto il primo romanzo storico “consapevole”, nonché stupendo ritratto femminile: La Princesse De Cléves di Madame de la Fayette. Il libro che mia madre adorava e mi obbligò a leggere a tredici anni, l’età di Yara.