La Stampa, 1 novembre 2021
Storia dei rave party in Italia
Da più di trent’anni la musica techno e le sue tribù percorrono vie sotterranee per venire alla luce all’improvviso nelle loro manifestazioni più spettacolari, i rave party, nati negli Anni 80 per ballare fuori dalle discoteche, lontano da ogni controllo. Basta un’informazione sulle chat giuste di Telegram, camion con gruppi elettrogeni e impianti di amplificazioni, una console, dischi e dj, come accaduto l’ultima volta alle porte di Torino o l’estate scorsa a Viterbo, ed ecco servito il rave da seimila persone. Niente di nuovo sotto il sole dunque, semmai c’è da chiedersi se in Italia ci sia un aumento di eventi del genere, ma è una domanda dalla risposta non facile: la natura nomade del fenomeno fa sì che i rave si svolgano anche altrove in Europa, dalla Francia al Nord fino ai Paesi balcanici, a cominciare dall’Albania.
Natura nomade confermata da Pierfrancesco Pacoda, giornalista autore del saggio “Sulle rotte del rave”, uscito per Feltrinelli: «Un rave è illegale di per sé, è da quasi quarant’anni che è così, dalle tribe inglesi come Spiral tribe e Mutoids, che girano per il mondo mettendo insieme punk, hippy e squatter inglesi».
I primi raduni illegali da Detroit, negli Usa, hanno contagiato l’Europa a partire dal Regno Unito e non si sono più fermati. Certe caratteristiche dei rave discendono in linea diretta dalla scena acida americana Anni 60-70 di gruppi come Grateful Dead, abituati a servire performance musicali di otto-dieci ore a un pubblico imbottito di Lsd.
Lunghezza e carattere psichedelico dell’esperienza somigliano troppo all’ambiente di un rave, dove il martellamento ipnotico delle percussioni è accompagnato da sostanze chimiche di vario genere, per non costituire un precedente importante: «È quel che resta del movimento hippy – dice Pacoda -. All’inizio c’era un pubblico più motivato anche politicamente, ma ora ogni etichetta è scomparsa e quel che importa a chi ci va è poter ballare in uno spazio libero. La techno d’altra parte non viene più proposta dalle discoteche, dunque le occasioni sono queste. Oggi a seguire eventi del genere c’è un pubblico vasto».
Le droghe fanno parte a pieno titolo degli ambienti rave, così come l’acido lisergico e la marijuana appartenevano al mondo hippy e ai suoi concerti, ma è anche uno degli aspetti che preoccupano di più le autorità: «In Italia ci sono cooperative che lavorano sulla riduzione del danno e che potrebbero fare informazione sugli effetti di sostanze e pasticche, com’è accaduto con l’allestimento in un centro sociale bolognese di un laboratorio che analizzava le droghe in circolazione in certe serate – aggiunge Pacoda -. Non ha senso dire di non farlo, un approccio laico e moderno mirato alla riduzione del danno sarebbe più utile».
Il popolo dei rave ha dato vita a riedizioni postume della Summer of love del 1967, sempre “calando” pastiglie, perlopiù in modo pacifico. Un bell’impulso musicale venne dato anche dai dj che a Ibiza diffondevano una visione psichedelica della pista da ballo. Oggi la pubblicità dei rave corre su Telegram, perché meglio criptato e più complicato da violare, ma l’effetto resta lo stesso: migliaia di ragazzi che occupano un posto illegale per ballare, rivendicando quanto declamato dai Beastie Boys: “We got to fight for our right to party”, cioè «dobbiamo lottare per il nostro diritto alla festa».