Specchio, 31 ottobre 2021
Leggende e realtà degli All Blacks
«Ringa Pakia!» («batti le mani sulle cosce»). «Uma Tiraha!» («sbuffa con il petto»). «Turi ahatia!» («piega le ginocchia»). «Hope whai ake!» («fai andare indietro i fianchi»). Infine: «Waewae takahia kia kino!», batti forte i piedi.
Se avete sempre sognato di eseguire l’haka, la danza-preghiera di guerra maori degli All Blacks, be’, adesso sapete come fare. Queste sono le istruzioni che chi guida la danza, il rituale sportivo più famoso del mondo, ribadisce ai compagni minacciosamente schierati in campo prima di iniziare la «Ka mate» – la versione più famosa – o la «Kapa o Pango», la più recente e crudele. Perché come disse un famoso Tutto Nero, «se dobbiamo farla facciamola bene, altrimenti mettiamo in imbarazzo tutto un popolo».
Di haka in realtà ce ne sono tante, ma questo è un argomento per musicologi ed etnografi, mentre a noi interessano loro, i guerrieri del rugby. La squadra statisticamente più forte del mondo in tutti gli sport, di tutti i tempi – 77,30 % di vittorie dal 1903 a oggi – che sabato 6 novembre l’Italia reduce da sei anni di sconfitte nel Sei Nazioni si ritroverà di fronte all’Olimpico, nel primo dei tre test match d’autunno. Oddio, l’ultima volta che li abbiamo incontrati, nel 2020, in realtà ci abbiamo pareggiato: 0-0, a tavolino, perché l’uragano cancellò l’ultimo incontro del girone ai mondiali in Giappone. Per il resto, 14 match, 14 sconfitte. La più onorevole, per noi, lo storico 20-6 del 2009 a San Siro.
«Gli All Blacks? Affrontarli è come guardare un Everest nero dal basso», ha detto una volta Sergio Parisse, il dislivello altimetrico e il dettaglio cromatico rendono l’idea.
Il rugby l’hanno inventato gli inglesi – e se non credete alla storiella di William Webb Ellis che raccoglie per primo il pallone con le mani, guardate cosa fanno i vostri figli inseguendo le prime sfere all’asilo… – ma i neozelandesi l’hanno reso un’arte, proprio come i brasiliani con il calcio. Un’arte istintiva, affascinante, feroce.
«Gli All Blacks sono la gang di strada del rugby», dice Peter Bills, giornalista british che ha iniziato a seguirli dal 1964. «Molto più scaltri di tutti. Sentono il sangue come gli squali, se mostri una debolezza ti colpiscono lì. Fisicamente mettono paura, se non riesci a contrastarli su quel piano non hai la minima chance. E si spingono sempre al limite del regolamento, mettendo alla prova l’arbitro: se lascia correre, loro iniziano a trasgredire regolarmente».
Perché è vero, come narra la leggenda, che la maglia degli ABs è nera in segno di lutto per l’avversario, ma anche che il nero indica l’orrore, la paura profonda che ogni All Blacks ha di perdere. Di tradire i compagni, i tifosi, una nazione che si identifica con lui. «La Nuova Zelanda è formata di due isole principali, l’ Isola del nord e l’ Isola del sud – scrive lo storico italiano dei Tutti Neri, Marco Pastonesi – che secondo alcuni geografi del rugby rappresentano la mischia e i tre-quarti».
«Tre quarti» – per capirci: quelli che non giocano in mischia – in inglese si dice ‘backs’, e una falsa leggenda vuole che sia stato un tipografo del Daily Mail a inventare il soprannome della Nuova Zelanda. Dopo un match finito 63-0 per contro i malcapitati dell’Hartklepool (siamo nel 1905) John Butterfly aveva scritto che gli ospiti «sembravano tutti backs», attaccanti indiavolati e inarrestabili, ma il proto lo considerò un refuso e trasformò «all backs» in «all blacks». In realtà già qualche match prima, a Exeter, qualcuno li aveva già battezzati così, ma guai a rovinare una bella storia con la verità.
La loro leggenda inizia fra il 1888 e il 1889, con il primo Tour nelle isole Britanniche, 115 partite in sei mesi, 78 vittorie, 6 pareggi, 23 sconfitte. Li chiamano Natives, indigeni. «I Maori hanno fatto progressi – scrive il politicamente scorrettissimo opinionista del Daily Telegraph – da quando il capitano Cook scoprì gli antenati tatuati degli attuali giocatori, che si mangiavano fra di loro nella foresta». Ma presto è la stampa british a doversi rimangiare l’arroganza.
A cambiare per sempre il rugby è la tournée del 1905, quella degli Originals, capitanati da David Gallagher, baffi a manubrio e cervello fino, uno dei tredici All Blacks morti nelle trincee della Grande Guerra (dove nacquero i Trench All Blacks, ma anche questa è un’altra storia). Gallagher era nato in Irlanda, aveva combattuto in Sud Africa contro i boeri, in campo era un leader un artista, inventò la maul e il mediano di mischia. La sua truppa di ventisette uomini in nero passò quarantadue giorni ad allenarsi sul ponte della RMS Rimutaka, che già al quinto imbarcava acqua, dalla grandine di Auckland alle nebbie di Plymouth attraverso il Pacifico e l’Atlantico. Appena il tempo di sciogliersi i muscoli dall’umido delle cabine, e poi trentacinque partite e trentaquattro vittorie, compreso un 15-0 rifilato ai maestri dell’Inghilterra a Crystal Palace, davanti a – pare – 70 mila persone. Una sola sconfitta, sempre negata (giustamente) dai neozelandesi, a Cardiff contro il Galles, il 16 dicembre. Sul 3-0 per i Dragoni Bobby Deans, numero 12 di maglia e contadino di mestiere, piazza la meta del pareggio, allora il punteggio era diverso, ma l’arbitro scozzese John Dewer Dallas la annulla: «Non ha toccato!». Deans è un bravo figlio, buoni sentimenti e messa tutte le domeniche, giura che la meta era buona. Muore tre anni dopo, per un’appendicite, l’ennesima leggenda sostiene che sul letto di morte le sue ultime parole siano state «I really scored that try», ho veramente segnato quella meta. Aveva ragione, la prova arriverà un secolo dopo, un gallese lo aveva spinto fuori dopo il tocco a terra.
Gli Originals erano fabbri, contadini, calzolai, impiegati di banca, minatori. Un mastro d’ascia, un ex fantino. Lloyd Jones, che ha dedicato loro uno dei più bei libri di sport – e poesia – di sempre (Il Libro della Gloria, Einaudi), racconta che durante la tournée gareggiavano anche nel nuoto. «Riuscimmo a stracciare il Middlesex 34-0 nel pomeriggio e surclassare nel nuoto i Woodsider la sera stessa nella piscina di South Norwood. L’Inghilterra pareva un luogo creato apposta perché potessimo primeggiare».
Una questione di mentalità, di visione, di nascita. «Gli inglesi vedevano le cose, noi gli spazi nel mezzo. Gli inglesi vedevano un difensore, noi lo spazio che c’era ai suoi lati. Gli inglesi vedevano un ago, noi la sua stretta cruna. Lo spazio era il nostro habitat. Noi eravamo i campioni delle larghe vedute, della prospettiva. La dimensione degli inglesi era il cortile».
La descrizione che ne facevano allora gli attoniti padroni di casa («È così che giocano i neozelandesi, come se dalla vittoria in campo dipendesse ogni loro speranza di felicità eterna») vale anche per epoche più recenti, disincantate e laiche. Per gli Invincibles che fra 1924 e ’25 vincono 28 partite su 28, con gli scozzesi che si rifiutano di incontrarli perché costano troppo. Per tutte le altre selezioni che hanno duellato in memorabili tournée con l’Inghilterra, il Galles, l’Irlanda ma soprattutto gli Springboks e i Wallabies negli anni 50’, ’60 e ’70. Compresa quella del 1976 nel Sudafrica dell’apartheid che portò al boicottaggio delle Olimpiadi di Montreal da parte delle nazioni africane.
Già a fine anni ‘60 gli ABs avevano messo per la prima volta gli avanti al servizio dei tre quarti, inventando un rugby totale e vertiginoso che si incarna in campioni assoluti come Lochore, Meads, Going, Shelford, giù fino a Jonah Lomu – il più famoso di tutti, il supereroe del rugby moderno che calpestava le difese… – a Dan Carter a Richie McCaw, ai fratelli Barrett. O a John Kirwan, insieme con Brad Johnston e a Kieran Crowley, nostro attuale ct, uno dei tre ABs che si sono seduti sulla nostra panca. «Le altre squadre pensano alle varie opzioni di gioco durante la partita (è sempre Peter Bills che scrive, ndr), loro non hanno bisogno di pensare: agiscono d’istinto. E quando pensi di poter prevedere le loro mosse, se ne escono con l’inaspettabile».
Nel corso del tempo, oltre che a vincere, i Tutti Neri hanno imparato anche a far fruttare la loro fama, il valore commerciale del loro marchio, uno dei più riconoscibili al mondo insieme a Ferrari e Coca Cola. Oggi secondo Forbes valgono 2 miliardi di dollari, e l’equity fund Silver Lake in aprile era quasi riuscito ad acquistare il 15 per cento del mito nero, diritti commerciali e televisivi compresi, per la bella cifra di 276 milioni di euro. C’era già firma pronta ma l’associazione dei giocatori, che ha diritto di veto, si è messa di traverso: «Non si svendono 129 anni di storia».
Alla fine forse l’affare si farà, magari al 7 e non al 15 per cento. L’orgoglio, la responsabilità, l’onore e il terrore di essere All Blacks non si calcolano però a Wall Street. «La maglia nera, in nuova Zelanda è tutto», ha detto una volta il pilone Neemia Tialata. «Noi la portiamo solo provvisoriamente, per farla vivere da una generazione all’altra. Non ci appartiene». Perché non ha prezzo, e non si può comprare.