Specchio, 31 ottobre 2021
Biografia di Giuliano Sangiorgi raccontata da lui stesso
Giuliano Sangiorgi guarda Roma passare davanti al suo balcone. Sono tornati i rumori, sono tornati i turisti, sono tornati i giorni quasi normali di prima che il virus si portasse via la nostra normalità, il nostro presente e il nostro futuro. E ora quello che si vede sembra tutto diverso. «Io ho paura che ci stiamo dimenticando di quel dolore che abbiamo provato tutti, quello dei momenti più bui. Cominciano a comparire e ad alzare la voce persone che negano quello che è successo».
Ne siamo usciti smemorati?
«Eravamo concentrati attorno a quel dolore e tutti volevamo venirne fuori. C’è ancora una memoria fisiologica del dolore, qualcosa di fisico che ti porta a reagire al dolore. Da un certo punto di vista non comprendo e non voglio comprendere l’oblio nel quale stiamo rintanando quel dolore che ci ha fatto perdere tantissime persone, ma d’altro canto capisco umanamente questo desiderio della dimenticanza, dell’oblio. Mi auguro invece che la mente, se da un lato il corpo dimentica, possa tenere alta la memoria di chi abbiamo perso: negare quello che è successo e ancora sta succedendo significa far morire due volte quelle persone».
Che cosa ha comportato questo anno e mezzo di dolore collettivo, di senso di impotenza?
«Ogni cosa la sentivamo fortissima, intensa, come forse dovrebbe essere: poi la vita torna a stabilizzarsi, ci indurisce la pelle e si diventa cinici. Eravamo sconvolti dal ribaltamento del normale svolgimento delle nostre vite e solo allora ci siamo accorti che quel normale svolgimento tanto normale non è. Nel momento esatto in cui tutto si è fermato abbiamo provato sensazioni ancestrali».
C’è stata all’inizio la necessità di starsi vicini e darsi speranza a vicenda. Lei uscì dal suo balcone per cantare per chi passava e per i vicini, per dare conforto.
«Era la metà di marzo del 2020, ho cantato solo quel giorno. Era la prima volta per tutti, lo avevano chiesto espressamente, di emettere un suono, di cantare alla finestra. Quel primo giorno fui ammaliato dal suono che veniva da ogni balcone, dopo giorni di Roma e mondo intero deserti, privi di suoni. Io ho sempre cercato il rumore della strada, l’ho sempre vissuto e amato. Quando tutti cantavano io ho sentito un richiamo, come acqua nel deserto, una fontana altissima. Sono uscito fuori ho preso la chitarra con l’istinto di quel momento. Ma non l’ho fatto per regalare un momento di musica alle persone, sono stato io a rubare la loro vicinanza in quel momento, la loro voce, la loro dolcissima presenza. Io non sapevo neppure cosa cantare, l’ho chiesto a mia moglie Ilaria. Abbiamo scelto Quanno chiove, di Pino Daniele, - poi mi hanno chiesto Meraviglioso - e ho cantato come se fossimo attorno a un falò. Solo dopo ho riflettuto sul fatto che le parole erano molto giuste in quel contesto: "Tanto l’aria s’adda cagna". Quando siamo rientrati dal balcone abbiamo pianto come fontane. Mentre cantavo ero preso dal momento. Non avevo pensato alle parole».
Non concentrarsi troppo sulle parole mentre si canta è un metodo per non essere sopraffatti dalle emozioni?
«Tante volte non si cantano con attenzione le parole. È come crearsi una specie di anticorpo. Spesso le canzoni hanno il potere di trasformare in gioia quello che stai cantando, anche se sono canzoni tristi. Succede con la malinconia dei grandi cantautori, Dalla, Tenco, De Gregori. Io sono figlio di quella malinconia, ma la cosa più forte che mi hanno lasciato quei grandi è la felicità, la gioia di cantare. Si dimentica la malinconia che le ha generate, quel sentimento a metà tra la gioia e la tristezza. Quella malinconia si traveste di tanta gioia, diventa semplice cantarle. Poi però ti lasciano addosso la profondità del testo».
Come gestisce le emozioni che le canzoni che scrive generano in lei?
«Credo ci sia, non dico un’incoscienza, ma dopo vent’anni ho imparato cosa succede quando arriva una canzone: intanto viene preceduta da un lungo silenzio mio, e io non sono mai silenzioso, parlo sempre tanto. Lo sento, lo avverto lo capisco. Tante volte si è strumenti di quella canzone, si è dei conduttori di energia. Quando si è conduttori la coscienza non è perfettamente a fuoco. Provo un’emozione fortissima quando scrivo. Poi non ci penso più. La riprovo come una fiamma violenta quando suono davanti a un pubblico, in concerto, quando siamo in un posto grandissimo, quando la canzone ritorna indietro cantata da 50 mila persone. Allora torno esattamente al momento a quando quel tarlo ha iniziato a lasciare il segno, mi ricordo la solitudine attorno a quella canzone, quel momento privatissimo che ora invece rivivo in un posto pieno di sogni, di persone, di passione. Allora sì, succede una cosa molto simile all’istante in cui la canzone è nata, come se si rinnovasse».
Lei pensa a cosa possano provocare le sue canzoni in chi le ascolta?
«No, quando scrivo non penso alle emozioni che le persone sentiranno quando le ascolteranno. Non mi sento meritevole del successo delle canzoni (che arrivano da sé), mi sento fortunato, con i pori aperti, uno strumento ricettivo per quando quella canzone arriva. Non mi sento meritevole di nulla: la canzone è arrivata, mi ha invaso, mi ha lasciato. Poi però arrivano le persone a raccontarmi cosa ha fatto quella canzone di loro, o magari qualcuno mi mostra una frase che ho scritto io tatuata sulla sua pelle».
Le canzoni cambiano la vita di chi le ascolta, molti la ringrazieranno per averle scritte. C’è qualche ringraziamento che l’ha colpita più di altri?
«Mi ha toccato il fatto che molti si siano accorti che in questo periodo difficile i Negramaro non si siano risparmiati. Noi siamo usciti con il nostro album, Contatto, a novembre, io con il mio nuovo romanzo, Il tempo di un lento, a maggio: mi ha commosso che abbiano capito che in questo periodo per l’arte c’è stata una chiamata alle armi. Ci ringraziano perché ci siamo stati e non ci siamo risparmiati, anche se non siamo potuti andare in tour. Abbiamo cercato di alimentare quel nutrimento senza il quale ci sarebbe stata non solo la morte fisica, ma anche quella spirituale».
Qual è stata la sua paura più grande in questo anno e mezzo?
«Lasciare mia figlia da sola. Avevo paura di mancare a mia figlia, come mio padre manca a me. Ma anche di portare in casa io il contagio. L’unico sollievo era sapere che sui bambini questo virus non facesse danni irreparabili».
Sua figlia Stella compie tre anni tra pochi giorni. Lei che tipo di padre è?
«Sono un padre che passa molto tempo con lei, siamo spesso tutto il giorno insieme. Poi finisce la giornata, le ho dedicato tutta la mia vita, e mi ritrovo a chiedermi se sono stato in grado di amarla come mi ha amato mio padre. Non so rispondere a questa domanda».
A questa domanda potrà rispondere soltanto Stella, tra qualche anno.
«È così. Non sono più l’oggetto dell’amore ma il soggetto attivo. Non so quale è il limite che posso raggiungere. Mio padre è stato incredibile. Non ricordo una punizione. Lui e mamma avevano un rapporto molto bello con noi tre figli. Vorrei ripetere le sue orme, se ci riesco. Ma a volte mi sembra irraggiungibile. Eppure passo molto più tempo io con mia figlia, grazie al mio lavoro, di quanto ne passasse lui con noi, uscendo al mattino presto e tornando soltanto per cena dopo aver lavorato tutto il giorno».
Suo padre è mancato otto anni fa. Se potesse riaverlo per un giorno che cosa vorrebbe fare con lui?
«Se avessi solo un giorno gli farei passare tutto il tempo con Stella e starei lì a guardarli conoscersi. In realtà, in maniera abbastanza incredibile, Stella è molto attratta sia dalla passione per la musica che dall’amore verso questo nonno che non ha mai conosciuto. Non sono io a parlarle né di lui né della musica, ma è come se andasse autonomamente a cercarli: e questo per me è sconvolgente».
Questo sentimento doppio, essere figlio ed essere padre, attraversa profondamente il suo nuovo romanzo, "Il tempo di un lento".
«Ai tempi del mio primo libro, Lo spacciatore di carne, ero ancora un figlio e lo scrissi cercando di capire quanto ripetessimo le colpe dei padri, quanto inesorabilmente cercassimo di allontanarci dai loro spettri, quanto le loro colpe ricadessero sui figli. Il tempo di un lento è nato quando ancora non ero un padre, nel 2017: ero diventato un figlio nostalgico, orfano di quel sentimento e avevo iniziato raccontando una storia di amore ancora molto legata al sentimento di essere figli. Poi però mentre scrivevo ho cambiato pelle, sono diventato padre. Così alla fine questo libro parla di un amore universale di un padre che saprebbe riconoscere un figlio anche se per quarant’anni non lo vedesse. Ho capito che gli occhi sono l’unica possibilità di essere riconosciuti nell’universo. Saprei riconoscere Stella in tutto l’universo. E questa cosa dello sguardo è stata ancor più accentuata da questa era delle mascherine. Negli occhi siamo tutti esseri meravigliosi. Fossimo un paio di occhi, saremmo tutti stupendi».
Quanto è lungo il tempo di un lento?
«È un titolo che comprende immagini diverse. Il lento è quell’attimo fuggente che sconvolge, che nasce per un bacio, per diventare infinito. Ma il tempo di un lento è anche un’epoca che non c’è più e che volevo raccontare. Il mio sogno è far ballare un lento a tutti in un grande stadio. Ora per spiegare ai ragazzi cosa significa "un lento" devi almeno aggiungere "Ballo", altrimenti proprio non capiscono di cosa si parli. Io ho avuto la fortuna di vivere gli anni Ottanta grazie ai miei fratelli più grandi. Abbiamo vissuto sempre assieme fino a quando sono andato via di casa per suonare e ho imparato da loro ad ascoltare la musica. Ho vissuto tutti quei momenti, quelli belli e quelli brutti di quegli anni grazie a loro e li ho fatti entrare in questo nuovo libro».
Anche Lele Spedicato, il chitarrista dei Negramaro, è come un fratello. Tre anni fa è stato colpito da un malore molto grave. Cosa succede nel cuore di un fratello in quei momenti?
«Io semplicemente mi ero ripromesso di non tornare a suonare se Lele non fosse ritornato. Il finale di questa trama, sono io che ringrazio Lele per non averci cambiato la vita ed essere tornato esattamente come prima. Lele è stato fortissimo per tutti noi, dobbiamo tutto alla forza che ha avuto: ricorda tutto e più di noi, non ha perso nulla. La malattia non gli ha lasciato praticamente nessun segno: è il nostro Lele».
Le sue paure influenzano la sua scrittura?
«Più che le paure, io credo che quello che ricade nella mia scrittura sia una grande mancanza di autostima. È un problema che spesso mi fa avere discussioni con mia madre. Appena finisco qualcosa di importante per me e magari anche di successo è come se non avessi fatto nulla. Dimentico quello che faccio dopo sei minuti. Così effettivamente ogni volta mi ritrovo davanti a un foglio bianco come se dovessi sempre ricominciare da capo».
Cosa pensa quando sente una sua canzone interpretata da altri?
«La prima volta che ho ascoltato Malika Ayane cantare Come foglie ho pensato che quella voce aveva dato alla canzone molto più di quello che avrebbe potuto darle l’autore stesso. È successo anche con Mina, con Patty Pravo, Ornella Vanoni. Con le grandi voci succede questa magia, certe canzoni sono più belle. Sono felice di guardarmi in questo specchio e ritovarmi cosi bello».
C’è un interprete per il quale vorrebbe scrivere?
«Di desideri ne avevo uno nascosto e si è avverato: Pino Daniele. Poco prima che morisse, Pino mi ha chiamato dicendo che voleva che scrivessi una canzone per lui. Io persi letteralmente l’equilibrio. Gli risposi: "Maestro ma non esiste, non me la sento". E lui: "Tu lo puoi fare: tu tieni l’anima dello stesso colore mio"».
E?
«E allora ho scritto la canzone e gliel’ho mandata. Ma lui se ne è andato. E quel sogno ora vive nel suo cassetto».