Specchio, 31 ottobre 2021
Record di cinesi all’Accademia d’arte di Roma
«Penso di essere stato indotto da Michelangelo stesso a venire a Roma: dopo aver visto così tante copie durante i miei studi, sentivo la necessità di vedere gli originali. Ed è stato choccante: è come se le opere mi avessero parlato». Sorride Yang – pensando alla chiacchierata immaginaria con Michelangelo – mentre passeggia per i corridoi della storica sede dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, diventata la sua seconda casa dopo aver scelto di lasciare – temporaneamente – la Cina per venire a studiare in Italia. E basta un veloce colpo d’occhio per capire che non è il solo: ragazze e ragazzi orientali fanno capolino nelle aule, si esercitano nei laboratori, lavorano con pennello e tablet dietro a un treppiede o armeggiano con flash e macchine fotografiche. E, nelle bacheche, ecco frettolose scritte in cinese, di chi cerca un alloggio o di chi si offre per un workshop di posa.
Una comunità dentro ad una comunità: su 3700 studenti iscritti quasi un quarto proviene dalla Cina, con numeri anche più alti prima della pandemia, in una sorta di flusso continuo iniziato nel 2009 con l‘attivazione di “Turandot”, progetto nato per favorire lo scambio in ambito universitario con Pechino nel campo delle arti, della musica e del design. «Sono sicuramente attratti dal nostro patrimonio classico – spiega la professoressa Cecilia Casorati, Direttrice dell’Accademia – ma la vera novità rispetto alla loro cultura tradizionale è il cambio di prospettiva: poter apprendere dal passato per applicare al presente, al contemporaneo. Questa visione dell’arte spiazza, sprona e stimola, perché diventa concreta: conoscenze antiche di secoli diventano qualcosa di applicabile alla preparazione tecnica».
Moda – in assoluto il più frequentato – pittura e scultura sono i corsi preferiti dagli studenti cinesi. Con il tema della lingua che rimane il grande scoglio, sia per quanto riguarda la didattica che l’integrazione. Nei primi anni le lezioni venivano seguite faticosamente vocabolario alla mano, con tentativi di traduzione con Google o solo grazie all’aiuto di qualche compagno che s’improvvisava traduttore. Oggi invece agli studenti ammessi è chiesto di frequentare almeno un anno di corso di italiano, proprio per favorire le attività in aula.
«È fondamentale, non solo per la contaminazione con il territorio, ma per far esplodere tutto il loro potenziale – aggiunge Casorati – per un docente è frustrante vedere il talento, riconoscerlo, ma non aver la possibilità di poterne parlare, di non poterlo spiegare. L’arte non è solo talento, è anche consapevolezza: parlarsi permette di entrare in sinergia con l’artista, e renderlo più consapevole».
«La lingua è sicuramente la difficoltà maggiore – conferma Yank – anche se forse il problema non sta solo nella capacità linguistica, ma nel fatto che non tutte le parole possono tradursi perfettamente». Parole intraducibili, quasi ad ammettere la distanza tra Roma e la Cina, distanza non solo in chilometri, ma soprattutto in abitudini, consuetudini, in stili di vita.
Nello stesso concetto di bellezza, di immaginazione, di creatività. E così, per chi è più timido ed introverso – o forse semplicemente non abbastanza interessato – diventa naturale rifugiarsi nel gruppo dei concittadini. Sono però tanti quelli che vanno oltre, cercando di fondersi, confrontarsi e frequentarsi con i compagni italiani. «L’arte non è un giocattolo per imbroglioni ipocriti – sentenzia Chen, 27 anni, pittore – sono stanco di interazioni sociali inefficaci, voglio solo comunicare con persone che ammiro». E in questa frase c’è tanto di quello che le studentesse e gli studenti cinesi cercano nel nostro Paese: toccare con mano quello che ammirano, che siano artisti, che siano opere, che siano persone. «Ultimamente sono andato a vedere delle statue di Canova – aggiunge Yang, quasi a sottolineare la necessità di questa immersione nella meraviglia – la cosa che mi ha travolto è stata la sensazione di tempo e di danza che riusciva a creare la statua nel farmi muovere intorno a lei! Era viva. E faceva sentire vivo me».
«Molti di loro mi hanno sottolineato di essere qua per imparare, non per copiare: per loro il messaggio – l’insegnamento – è tramandato, è qualcosa che viene consegnato dal Maestro. Ed è qualcosa che loro stessi poi cercando di tramandare, il più delle volte tornando in Cina, altre volte continuando questo loro Grand Tour della formazione in altre città europee, oppure cecando di affermarsi qua da noi». Lo spiega bene Filippo Troiano, fotografo e autore degli scatti che accompagnano questo servizio, che prima come allievo e poi come collaboratore, ha frequentato l’Accademia, entrando in relazione con molti studenti cinesi e coinvolgendoli in progetti artistici. «È innegabile che la lingua sia una barriera iniziale. Questo può creare una certa diffidenza nel primo approccio, ma basta poco per allacciare relazioni e sinergie solide. Qualcuno di loro dice di aver subito qualche piccola forza di razzismo, o di aver percepito l’accusa di essere qui per appropriarsi di idee altrui, ma sono sicuramente casi rari».
Non è invece raro, tra una lezione e l’altra, vedere sfilare allievi cinesi con abiti esclusivi, accessori firmati e taglio dei capelli estremamente ricercati. «La moda non solo la conoscono e la studiano, ma la indossano, la interpretano – conclude la direttrice Casorati – e i vestiti che disegnano spesso sono una loro evoluzione dell’incontro tra le culture. È bello quando le cose si coniugano, quando quello che tu sei riesci a metterlo in relazione con il posto dove sei. E da questo spesso nasce un linguaggio nuovo».