Specchio, 31 ottobre 2021
Quando i morti fanno festa con i vivi
La morte è l’estremo rito di passaggio, l’ultimo, quello che segna l’abbandono delle relazioni vissute. Non a caso questo momento viene ritualizzato in tutte le culture: neppure dopo la morte, lo abbandoniamo completamente nelle mani della natura. Anzi, proprio quando sembra essere giunto alla fine, il nostro corpo riacquista una nuova dimensione. L’uomo è l’animale che seppellisce i propri morti, quasi nessuna popolazione lascia i cadaveri così come sono. In forme diverse, più o meno ritualizzate, tutti praticano la cosiddetta «toilette del morto», la composizione del cadavere, la sua cura, la sua vestizione, la preparazione di cibi per il viaggio. Perché sebbene in forme diverse quelle persone continuano a vivere tra di noi.
I morti non sono sottoterra/ essi sono nell’albero che stormisce,/ nel bosco che geme/ essi sono nell’acqua che scorre,/ sono nell’acqua che dorme./ Essi sono nella capanna essi sono nella folla,/i morti non sono morti.
Sono versi del poeta senegalese Birago Diop, che evocano magnificamente il rapporto che in molte parti dell’Africa esiste tra vivi e morti: questi ultimi sono divenuti antenati, ma continuano a vivere nelle cose, negli oggetti, nella natura. Il culto dei morti, presso quelle popolazioni e un fatto quotidiano, una consuetudine. I defunti non sono perduti, come in alcuni romanzi di Gabriel Garcia Marquez, continuano a tornare tra i viventi, li consigliano, li accompagnano, li puniscono.
Anche per gli Huli della Nuova Guinea il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti è molto labile.
Dopo la morte lo spirito si stacca dal corpo e intraprende il suo viaggio verso il sud dell’isola. Dopo molte generazioni le anime si trasformano in spiriti e diventano antenati, figure sacre, profondamente in contatto con la natura e sono gli unici che dopo la morte, possono anche tornare sulla terra.
Gli antenati si dividono in tre categorie: ci sono gli antenati buoni, poi gli spiriti e infine i predatori che causano malattie e morte. I riti funebri all’interno delle tribù sono tutt’oggi caratterizzati da danze, fatte con maschere di legno, che rappresentano gli spiriti degli antenati.
I Toraja dell’isola di Sulawezi (Indonesia), usano mummificare i corpi dei loro defunti, con ingredienti naturali, per poi seppellirli in tombe nella roccia. Ogni tre anni in occasione di una festa, quei corpi vengono riesumati, puliti, vestiti con abiti nuovi e partecipano alla festa insieme ai vivi. Questo consente alle persone di rivisitare i propri cari, collegandosi così con il mondo dei morti.
Inn? li’ll?hi wa-inn? ilayhi r??i‘?na, «a Dio apparteniamo e a Lui facciamo ritorno». Così recita il Corano e secondo la concezione islamica, l’aldilà è il “luogo del ritorno”, un ritorno all’origine. Questa contiguità tra la vita e la morte è rappresentata in modo esemplare da al-Qarafa, la città dei morti del Cairo, un cimitero inurbato, abitato però anche dai vivi. Un milione di persone, infatti, vive nelle tombe costruite dai conquistatori arabi dei primi secoli, accanto a mausolei di sultani e di mistici oggetto di culto.
Nel mondo ebraico, nell’anniversario del decesso di un parente (Yahrtzeit) vige l’obbligo di recitare il Kaddish la sera della vigilia e al mattino successivo, per quattro volte. Alcune famiglie osservano un giorno di digiuno, mentre altre, più ortodosse, consumano un pasto celebrativo in onore del defunto il giorno che precede lo Yahrtzeit. Inoltre, è uso far bruciare una candela per 24 ore. In molte sinagoghe si trovano targhe con i nomi dei membri deceduti. Tradizionalmente ci si reca al cimitero durante i giorni del digiuno e prima delle principali festività, come il Rosh haShanah, il capodanno ebraico. È usanza comune quando ci si sofferma sulla tomba o anche se si passa davanti a sepolcri di sconosciuti, lasciare un sassolino che deve venire rigorosamente posato con la mano sinistra. Ciò dimostra che qualcuno ha visitato e osservato la mitzvah della sepoltura. Le pietre, a differenza dei fiori, non appassiscono e sono un simbolo di “permanenza”.
L’elenco delle diverse forme di commemorazione dei morti sarebbe lunghissimo, ma ciò che le accomuna è la volontà di non spezzare definitivamente il legame con chi ci ha lasciato. Seppure alla base ci siano concezioni molto diverse della vita e della morte, rimane il fatto che le due sono legate tra di loro, in un perenne dialogo, e sebbene questo possa avvenire a livello simbolico, o attraverso una danza, una recita, un canto, una preghiera, ciò che colpisce è questo attaccamento comune con una qualche forma di aldilà a cui tutti sembrano voler pensare.