Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2021
Collezione Cerruti, il catalogo è questo
Un accordo con la Fondazione Cerruti consente al Castello di Rivoli di annettersi, almeno temporaneamente, la collezione di Francesco Federico Cerruti (1922-2015), intatta nella sua villa di Rivoli (non lontana dal Castello) e mantenuta nella forma in cui egli stesso la volle, abitando altrove ma recandovisi in un quotidiano pellegrinaggio d’arte. Modificando spesso l’ordine, l’allestimento e gli accostamenti degli oggetti d’arte, come a scoprirne e additarne (a se stesso, e ora anche a noi) segrete affinità: tale è ad esempio, lo ha segnalato Carolyn Christov-Bakargiev, la studiata adiacenza di un ritratto a olio di Pontormo e di un ritratto fotografico di Man Ray. La collezione Cerruti è un insieme di oltre trecento opere, formato in quasi mezzo secolo con particolare operosità, discrezione e gusto; e la varietà delle raccolte vale come una sorta di abito, sontuoso e misurato, che il collezionista ha cucito giorno dopo giorno per se stesso, e che con generosa lungimiranza ha voluto donare alla città.
Con questo matrimonio giudizioso fra un castello reale diventato museo d’arte contemporanea e una collezione idiosincratica ed eclettica messa insieme in una dimora privata da un imprenditore di genio, Rivoli entra nell’attualissimo discorso sull’istituzione-museo, spesso incentrato sulla contrapposizione fra casa e museo. È un tema lanciato da Orhan Pamuk nel suo Modesto manifesto per i musei (2012), una critica radicale contro i «grandi musei sotto l’egida dello Stato» il cui vero obiettivo, «né positivo né innocente» è appunto di rappresentare lo Stato che li ha voluti. I grandi musei «ci invitano a dimenticare la nostra umanità per identificarci con lo Stato e le masse umane che lo formano». Ad essi Pamuk contrappone i piccoli musei che, «proprio come i romanzi, possono parlare anche in nome dei singoli esseri umani (...). Le storie degli individui sono molto più adatte a mettere in evidenza gli aspetti più profondi della nostra umanità», perciò «è necessario che i musei diventino più piccoli, più centrati sugli individui. Solo così essi potranno raccontare storie a scala umana». Insomma, questa la sua conclusione, «il futuro dei musei è dentro le nostre case».
La casa e il museo sono i poli opposti di quel che potremmo chiamare “estetizzazione del quotidiano”. La casa quintessenza del privato, il museo del pubblico. La casa arredata secondo l’arbitrio personale, il museo costruito sul filo di preoccupazioni collettive, istituzionali, politiche. La casa specchio instabile di vicende mutevoli come la vita di un essere umano, il museo deposito autorizzato di memoria culturale. La casa esperienza intima e segreta, il museo struttura istituzionale. Casa e museo, tuttavia, hanno un nucleo generativo comune: la memoria delle cose. Tendiamo, anzi, a dimenticare non solo quanto sia recente l’istituzione-museo (i Capitolini, primo vero museo pubblico, nascono nel 1734), ma anche la sua origine storica dalle collezioni private e domestiche, in particolare di antichità. Tutti sanno che alcuni grandi musei (il Louvre, gli Uffizi, il Prado…) nascono dalle imponenti raccolte dei sovrani; ma il minuto e diffuso collezionismo di antichità è ancor più antico, e non ebbe luogo nelle regge ma nelle case, con funzione memorativa e documentale. Le sculture antiche a Roma giacquero indisturbate nelle rovine per più di mille anni, senza che nessuno le raccogliesse, se non per fondere i bronzi o far calce dei marmi. Ma nel corso di un “lungo secolo XV” innescato dal ritorno dei papi da Avignone crebbe – si può dire – da un giorno all’altro il prestigio dei marmi antichi, che metaforicamente incarnavano la memoria dell’impero e la provvidenziale scelta di Roma a sede del papato. La memoria delle cose veniva così redenta dall’oblio ed eretta a manifesto, politico prima che culturale, di un progetto papale e civico di renovatio Urbis.
Era dunque nato un “collezionismo” che non aveva ancora questo nome, e mancava anche di un suo luogo deputato, tanto che le sculture venivano esposte alla vista incastrandole nei muri delle case o disponendole in disordine entro portici, cortili, giardini. Di qui nascono i musei: per uno sviluppo che parte da occasionali raccolte di antichità nelle case, passa dalle grandi gallerie di papi e sovrani (non aperte al pubblico), e infine, secoli dopo, genera i musei pubblici. Questa lunga e complessa storia è il contraltare, o meglio l’antefatto, della tesi di Pamuk: se, com’egli sostiene, «il futuro dei musei è nelle nostre case», non sarà forse perché dalle nostre case viene in ultima analisi l’idea del museo? E perché dalle case viene l’idea-base secondo cui memorie ed emozioni (politiche o estetiche, individuali o collettive) possono incarnarsi in una trama di oggetti, esserne ispirati e alimentati?
Le case-museo che mantengono significative collezioni private entro una dimensione domestica sono sempre più popolari e ricercate (lo stesso Pamuk ne ha creato una a Istanbul, il Museo dell’innocenza): basti qui ricordare Kettle’s Yard a Cambridge, o a Milano la casa Bagatti-Valsecchi.
Ora a Torino la Villa Cerruti, concepita come scrigno di una passione privata per gli oggetti d’arte diventa la casa di una comunità cittadina. Il pubblico, torinese e non, che potrà muoversi dal Castello di Rivoli alla Villa Cerruti percorrerà al tempo stesso, in un simbolico moto pendolare, sia la strada della formazione storica del museo-istituzione («dalla casa al museo») sia quella del riscatto emozionale degli oggetti secondo la ricetta di Pamuk («dal museo alla casa»). Offrendo simultaneamente l’una e l’altra dimensione, un’istituzione come il Castello di Rivoli compie un gesto d’avanguardia. Incorpora non solo una nuova collezione di gran pregio, e con essa la personalità del Cerruti e il suo proverbiale riserbo, ma anche il cuore vivo di una domanda di fondo sulla nascita, la storia e il destino dell’istituzione-museo.