Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2021
La nuova traduzione italiana dell’Ulisse di Joyce
Lessi Ulisse per la prima volta nel 1991. Avevo quindici anni e me lo consigliò un coetaneo, Fabio Pedone, con cui avrei poi tradotto il Finnegans Wake. Lui l’aveva letto già da qualche anno. Lo lessi in traduzione, e sul momento non ci capii troppo, ma non mancò di affascinarmi terribilmente. Fu forse quel suo porsi come finestra sull’oscuro, come invito all’insondato, come sfida a occhi chiusi, a incantarmi.
L’avrei letto in originale anni dopo, a Dublino, per il PhD, e allora mi concentrai proprio su quel suo buio ermeneutico, quel magma primordiale da cui la letteratura, intesa come prodotto da consumare, poteva uscire soltanto alla luce di un’arte perenne.
Nel terzo episodio del romanzo – sì, perché Ulisse non ha capitoli, ma solo episodi, seguendo l’Odissea – un pensiero criptico del giovane Stephen Dedalus sembra rivolto non a se stesso ma al lettore: «Trovi le mie parole oscure. L’oscurità è nella nostra anima, non credi?»
È un pensiero strano. Ci parla di Bruno, mentore di Joyce, e della sua umbra profunda, ma anche di San Giovanni della Croce e della sua oscura notte dell’anima; e poi, rivela teologie negative e credenze cabalistiche per cui Dio è il vuoto o il nulla, misticismo, e un senso della divinità eterna che era, per Jacob Boehme, come Joyce ben sapeva, un occhio sull’abisso.
Quando lo tradussi la prima volta, col supporto di Carlo Bigazzi, tentai, sia nella versione italiana che nei commenti, di far affiorare questa sua oscurità, quest’ineffabile sfuggire a ogni tentativo di catalogarlo. E tentai anche di far emergere la sua grande comicità, la sua irlandesità, le sue eresie.
Passati quasi cento anni dalla sua prima uscita, sono tornato a lavorare sulla mia traduzione con occhi nuovi, con un pensiero nuovo. Consapevole, su tutto, che Ulisse è un libro nato in esilio: un libro emigrato.
Joyce si trovava a Parigi, quando la libreria Shakespeare & company lo pubblicò. Aveva vissuto per quasi dieci anni a Trieste, per un po’ in Svizzera durante la Grande Guerra, ed era stato persino a Roma, per soli sette mesi e sette giorni. Ma fu proprio nella capitale che, tra il settembre e il novembre del 1906 ebbe l’idea di scrivere qualcosa con quel titolo, Ulysses. Doveva, nelle sue intenzioni, essere un racconto da includere in Gente di Dublino; e invece poi, a Trieste, iniziò a renderlo romanzo, un romanzo che avrebbe cambiato, nel bene o nel male, le sorti della letteratura.
In Via Frattina, fuori dal suo primo alloggio romano, si legge una targa dettata da Giorgio Melchiori nel 1982 – centenario dalla nascita di Joyce – che recita: «In questa casa romana /dove abitò dall’agosto al dicembre 1906 / James Joyce / esule volontario / evocò la storia di Ulisse / facendo della sua Dublino / il nostro universo». I grandi scrittori sanno farci sentire a casa, questo è vero. Ma come può mai, un artista, fare di casa sua il nostro universo?
Una volta, in classe, il mio professore irlandese, Declan Kiberd, alla domanda «perché Joyce ha scritto Ulisse?» rispose: «per farci sentire più a nostro agio nel mondo». È una lezione che i detrattori di James Joyce ancora non sanno cogliere. Non sanno cogliere il senso profondo di quell’uomo nuovo che è Bloom, figlio di emigrati di origini ebraiche, continuamente bistrattato in un’Irlanda cattolicissima. Un uomo che, per prima cosa, al mattino, prepara la colazione alla moglie (siamo nel 1904!), sapendo che lei lo tradirà proprio nel pomeriggio. Per tutto il giorno, pur soffrendo, non pensa mai alla vendetta.
Se Odisseo, al ritorno ad Itaca, fa assieme al figlio strage di tutti i pretendenti al trono e alla mano di Penelope, Bloom, “traduzione” emendata del suo predecessore, non solo non irrompe in casa per cogliere in flagrante lei e l’amante, ma tenta in ogni modo di superare il trauma con evoluzioni di pensiero.
È questa la libertà di Ulisse. Una libertà al maschile, ma anche al femminile. Una vera emancipazione.
Un’altra cosa, poi, non colgono, i critici ostili a Joyce: il senso profondo d’aver lasciato proprio alla donna l’ultima parola nel libro. La moglie di Bloom, Molly, che col suo monologo interiore di ventimila e più parole senza virgole o punti chiude il romanzo, è una divinità terrestre presente in tutti i pensieri del marito come in quelli del lettore. È lei a guidare nell’ombra la narrazione. Ed è lei la persona attorno a cui gira ogni cosa: il fulcro di un mondo che, in letteratura, prima del suo avvento, non aveva mai, neanche con Flaubert, visto il femminile indiscutibilmente al centro di tutto.
È stato con queste consapevolezze che ho affrontato di nuovo Ulisse; e l’ho fatto stavolta col supporto dell’originale, in una traduzione nuova con testo a fronte, in cui l’italiano è un velo che rivela e ri-vela lo splendore originario del testo. L’ho fatto, poi, tentando di fornire, sì, al lettore una mappa ragionata del romanzo, ma una mappa fluida, che lasciasse porosa e aperta l’interpretazione di questo libro-universo. Tutti i miei apparati critici seguono questo principio ben delineato da Umberto Eco, tra i più acuti lettori di Joyce: Ulisse è un’opera aperta non perché non finisce, ma perché non è “finibile”.
Ogni lettore ha il suo Ulisse. Ognuno può addentrarsi tra i suoi cunicoli e leggerlo come vuole. Nessuna autorità potrà aggiogarlo. E come in una vecchia canzone irlandese da cui Ken Loach trasse il titolo di uno dei suoi film migliori (The Wind that Shakes the Barley), nell’avvicinarlo liberamente, percepiamo che «nessuna forza al mondo può mai intrappolare il vento che accarezza l’erba».