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 2021  ottobre 31 Domenica calendario

A tu per tu con Giorgio Spanu

Le vie dell’arte, come quelle del Signore, sono infinite. Chissà che le due cose, alla fine, non siano in relazione. Si manifestano, entrambe, per momenti, occasioni e cose imperscrutabili e impensate, che servono, magari, solo a far scattare il fatidico clic. Giorgio Spanu, sardo di nascita (1954) e americano d’adozione (e in molti sensi: dalla praticità nel lavoro alla vocazione genuina per la filantropia), l’ha imparato presto. E, seduto nella lobby di un lussuoso hotel di Milano, con solo una bottiglietta d’acqua davanti, mi racconta due di quei momenti cruciali. «Ero a Firenze, ero giovane, studiavo e facevo lavoretti d’occasione: guida turistica, barman, portiere d’albergo, cose così. Un mio carissimo amico greco, Dimos, purtroppo scomparso, mi chiede perché non sono andato ancora a vedere la mostra di Paul Klee che in quel momento era in città. Ci vado il giorno dopo: avrò fatto 5-6 volte il giro dell’esposizione. Non bevo e non mi sono mai drogato in vita mia; ma quel giorno ho capito cosa significa avere un turbamento, e una dipendenza. Ho detto a Dimos: “Un giorno possiederò uno di quei quadri”. Quanto mi ha sfottuto per quella frase!» se la ride adesso, ricordando. 
E invece: ci fosse solo un Paul Klee nella vita di Spanu. Da Firenze, con un lungo passaggio in Francia, dove lavora per un importante editore nella comunicazione e nel marketing ed è tra i fondatori di un’azienda specializzata nell’animazione delle immagini video con l’assistenza del computer, l’approdo finale è negli Stati Uniti, tardi anni 80: guadagna molti soldi (e, fin qui, è una storia come tante) ma, soprattutto (e questo la renderà molto meno comune), conosce la futura moglie, Nancy Olnick, erede di una famiglia dal solidissimo business nell’immobiliare (ramo nel quale ancora lavora) e già amante e collezionista d’arte. Con lei condivide ogni cosa: anzi, è lei – innamorata di tutto ciò che è italiano – che fa scattare di nuovo la scintilla. «Eravamo in una casa d’aste e Nancy vede una clessidra di vetro: blu cobalto e smeraldo. Mi dice: “È bellissima. Perché non fai un’offerta?”. Qualche giorno dopo mi telefonano: mi sono aggiudicato l’oggetto. Non ero del tutto convinto. Io sono minimalista al massimo: non volevo nulla in più in casa». Ma la clessidra fa il miracolo: forse era solo questione di tempo; e di luce. «La guardai per un giorno intero, come rifrangeva la luce in tutti i momenti, come interagiva con i fiori di Warhol che avevamo in una parete. Venne fuori che era un pezzo di Paolo Venini, iniziammo a informarci e partì il nostro amore per i vetri». I vetri artistici: già. “Squalificati” nel mercato dell’arte fino a qualche anno fa, come tutte le arti cosiddette decorative (oggi spuntano cifre milionarie), i vetri di Murano diventano la loro fissazione. Comprano, selezionano, vanno a visitare le fornaci in Laguna, i maestri rimasti, gli artisti che ancora vi si dedicano e danno la caccia al loro mito: Carlo Scarpa. Le sublimi produzioni vetrarie di Scarpa sono il lasciapassare per i musei. I loro pezzi, in prestito, costruiscono mostre sontuose: Canada, America, Italia... Nel frattempo, la coppia conosce Lella e Massimo Vignelli, i grandi designer che a New York sono più che nomi: uno stile di vita. «Per me, per noi, è stato importantissimo. Massimo mi ripeteva: “Giorgio, noi due siamo della generazione mortadella”»: ed eccoli, immaginateveli, due uomini di successo, uno di fama internazionale, rifugiarsi, quando si può, in un panino con mortadella e godere come bambini di quel piccolo, grande piacere. «Sono nato in una famiglia del Sud Sardegna dove l’arte praticamente non c’era. Mio padre era dirigente delle miniere. Da subito, però, ho capito che in certi oggetti della tradizione, in alcuni taglieri di legno, nelle ceramiche, nei bellissimi cestini che faceva mia madre, c’era un innegabile aspetto artistico». Dall’altra parte dell’Atlantico, con Nancy, senza la quale non muove un passo (e quando gli dico che la foto in pagina sarà per lui solo, perché così vuole il format, se ne dispiace sinceramente e mi prega di metterlo con la moglie – di qui spiegata l’eccezione – «Davvero: facciamo tutto insieme, non avrebbe senso»), coltivano il bello, la curiosità e lo studio. Meglio: la condivisione; concetto fondamentale per loro. «Senza Nancy non ci sarebbe stata questa spinta. È lei che mi fece andare oltre Klee e Dubuffet, mi disse di sperimentare». Acquistano solo ciò che piace, lasciando perdere le mode del mercato, investono solo in ciò che aumenta la passione. Grazie a Sauro, un amico gallerista, siamo negli anni 90, “vengono spediti” al Castello di Rivoli a una mostra di Arte Povera. «Non ne sapevo niente»: e Spanu lo ammette senza vergogna, con la massima umiltà, e con lo stesso entusiasmo che gli brilla negli occhi ancora oggi: due tratti, insieme all’essere schivo e geloso della sua privacy, che mi sembrano decisivi della sua personalità. «Fu un’emozione assoluta. Siamo usciti dalla mostra e abbiamo iniziato a cercare questi artisti, a conoscerli, a studiarli, a comprarli». L’ultima avanguardia italiana del Novecento, da Anselmo a Zorio: artisti benedetti da un curatore eccezionale come Germano Celant (che, naturalmente, sarà amico della coppia) costituirà il principale nucleo di una collezione d’arte contemporanea italiana, certamente la più importante in mani private su suolo americano. «A un certo punto, complice il black out a New York e un amico artista, Giorgio Vigna» (che, sembra una cattiva sceneggiatura – ma è andata proprio così – appare di lì a qualche minuto nello stesso hotel, ndr) «ci viene in mente un’altra idea. Avevamo fatto questa casa tutta luce e vetri» (vedi tu dove ti portano le clessidre artistiche, ndr), «firmata dall’architetto spagnolo Campo Baeza e lui, Vigna, vedendo una cisterna coperta, mi disse che aveva in mente un’opera site specific, da realizzare sopra». Nasce «La Radura» e nasce un programma, per i giovani artisti, che vivono una residenza e ai quali viene commissionata un’opera che starà in collezione. È un modo di scoprire talenti italiani, lanciarli, sostenerli, farli lavorare, negli Usa. «Da allora abbiamo avuto tutti artisti molto significativi e che emozione, che gioia, quando in una Biennale ben 5 artisti del nostro Art Program erano in esposizione!». È così, Giorgio Spanu: fa letteralmente il tifo per gli artisti. «Sono mecenate, collezionista è una parola meno precisa, dillo come vuoi: penso che il mondo dell’arte è fatto da queste figure, dall’artista, dal mecenate, dal gallerista, dal collezionista e ciascuno deve fare il proprio lavoro, nessun anello deve mancare. Per esempio, non discuto mai di denaro con gli artisti, anche se ora li conosco. Passo dalla galleria, e se un giovane artista non ne ha una, il mio primo consiglio è quello di farsi rappresentare». Questione non formale, ma di sostanza. «In America gli artisti italiani contemporanei sono poco noti, perciò faccio di tutto per farli essere più presenti». Per questo è nato Magazzino Italian Art, nel 2017, a un’ora da New York, negli spazi di un ex fabbrica di computer (e vedi tu, se le vie dell’arte non sono anche sorprendenti): prima per contenere, ed esporre, le opere della collezione privata, poi per diventare quella che Michelangelo Pistoletto ha definito «l’Ambasciata dell’arte italiana». Almeno in America. «Collaboriamo con tutte le istituzioni, dall’ambasciata, quella vera, all’Istituto Italiano di Cultura, ai vari musei», senza contare che lo stesso Spanu è stato eletto da qualche anno, per acclamazione, presidente dell’Advisory Board della Casa Italiana Zerilli-Marimò alla New York University.
Arriva Nancy che prende posto nel divanetto di fronte a noi. Sorridente, entusiasta, piena di idee. Giorgio le fa un complimento, annuncia una festa per lei: lo sguardo che le manda, da dietro gli occhialini, è ancora quello di un ragazzo innamorato. Magazzino, in pochi anni, fa il boom di presenze e diventa una Fondazione Museo che gode anche della possibilità di ottenere donazioni, con benefici per i donatori. «Ricevere donazioni di qualità è diventata cosa rara tra i musei, anche americani» chiosa. Mi dice che tra poco annunceranno la prima importante donazione di un grande artista italiano, Piero Gilardi, che destinerà a Magazzino Italian Art Foundation un gruppo di opere, e che fra due anni apriranno un nuovo padiglione, dedicato a Robert Olnick (papà di Nancy): servirà a esporre i lavori delle nuove leve dell’arte contemporanea italiana, ma anche per mostre tematiche di maestri storici italiani del dopoguerra, avrà un centro studi e di ricerca, un caffè (cibo, ovviamente, italiano) e uno spazio per la ceramica, i gioielli d’artista e i vetri di Murano. Si ritorna dove si è cominciato. «Il senso del museo non è l’esposizione della nostra collezione che, anzi, con la costituzione in Fondazione pian piano verrà ceduta da me e Nancy all’istituzione, ma quello di far vivere l’arte e gli artisti italiani, facendoli studiare, vedere e lavorare». Gli chiedo se la collezione continui ad arricchirsi. «Certo», sorride. «Proprio ieri ho comprato un Nivola, una scultura di cemento che l’artista aveva venduto a un amico, e di cui non si sapeva più nulla. Ora la restaureremo ed entrerà in collezione». Il richiamo alla Sardegna, ovvio, ci unisce: Nivola, artista (immenso) di Orani ma vissuto in America è ora in esposizione a Magazzino con la mostra «Sandscapes» e poi Cristian Chironi, anch’egli di Orani, che ha concepito, con la Fiat 127 di Nivola ed i colori di Le Corbusier, una performance, organizzata e finanziata da Magazzino: un progetto che riconnette questi sardi d’Oltreoceano innamorati dell’arte. «Avevo delle perplessità», confessa Spanu: «se faccio una mostra su Nivola o su Chironi magari mi accusano di farla perché sono sardi. E invece la faccio perché sono dei grandi artisti». È lo stesso motivo, gli ribatto, perché io avevo delle perplessità a fare e firmare questa intervista a lui. Poi mi dico che le passioni e le cose di valore non hanno confini. A lui questo pensiero non lo rivelo, ma quando mi saluta, dal suo sguardo capisco che lo sa già. E condivide in silenzio. Come usa tra noi, isolani.