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 2021  ottobre 31 Domenica calendario

Biografia di Luciano Ligabue raccontata da lui stesso

Giacchetta di pelle e maglia nera a girocollo. Anelli d’argento alle mani, d’argento sono i capelli. Quando risponde resta sempre con il petto in fuori, come a dire sono qui, a sessanta e passa anni so chi sono, o almeno so chi sono diventato e perché.
Così la serie a lui dedicata s’intitola È andata così (su RaiPlay, bravissimo Duccio Forzano alla regia), in cui Ligabue non bluffa, in cui la botte della sua esistenza non viene camuffata dal sentore barrique per nascondere le imperfezioni. “La serie ha un pregio: è realizzata con il sorriso; parla della mia storia, della mia vita, quindi affronta temi seri ma con il sorriso. E sono contento”.
In questi anni per molti le è mancato…
Spesso mi hanno accusato di prendermi troppo sul serio, ma un po’ dipende dal carattere: chi non mi conosce vede la maschera, quella che da sempre indosso per la timidezza e che di conseguenza può creare distacco. Ma non è così.
Nella serie racconta pure le sue origini.
Vengo da una famiglia di comunisti, in cui non si festeggiava il Natale, quindi niente albero e niente regali; i regali arrivavano alla Befana.
È battezzato?
(Sorride) Ho tutti i sacramenti, per il resto c’era una certa rigidità.
Don Camillo e Peppone.
Sì, però allora tutti avevano una sorta di targhetta ben visibile: o di qua o di là e credo fosse il bisogno di mantenere un po’ di chiarezza dopo la guerra; comunque in casa mia non si parlava spesso di comunismo, ma era un parametro per capire chi frequentare, chi era buono o cattivo, con nonno che era stato una figura importante tra i partigiani di Correggio.
I partigiani emiliani erano molto tosti…
Nonno neanche bestemmiava, non usava il nome di Dio invano e non l’ho mai sentito attaccare l’altra parte: per me questa è stata una lezione importante; detto questo, se ai miei avessero chiesto “dovete vivere come in Unione Sovietica”, allora non sarebbero più stati comunisti.
E la Festa dell’Unità?
È stata una chiave di volta: negli anni Settanta rappresentava una grande possibilità d’incontro, con concerti gratis, dibattiti interessanti quando non esageravano e diventavano da orchite; poi per me è stata una delle poche occasioni per salire su un palco. La mia gavetta.
Nella gavetta ha affrontato concerti con 8 spettatori.
A Ravenna nel 1990, mentre il mio primo album stava per uscire; (ride) per noi quella data rappresentava un piccolo evento, Ravenna era una trasferta rispetto al nostro normale circuito, qualcosa di esotico.
Il primo album inizialmente è stato rifiutato da tutte le etichette. Ha scoperto il perché?
Passo indietro: alla fine degli anni Ottanta imperava il synth-pop con un’idea di canzone che avesse suoni scoppiettanti, un po’ chiassosa e aiutata dall’elettronica; mentre non erano tempi buoni per le chitarre. (Sorride) Il mio produttore del tempo, Angelo Carrara, era scoraggiato e ripeteva: “O non lo ascoltano o chi lo ascolta non è interessato”. Fino a quando arriviamo all’ultima possibilità: la Polygram. E Angelo decide di giocarsi la carta della presenza: “Vieni pure tu”.
E…
Arriviamo e il direttore generale era scocciatissimo, non aveva voglia di incontrarci. Mette su la cassetta. Ascolta Balliamo sul mondo. Dopo il primo ritornello spegne e sentenzia: “C’è troppo Guccini”. Lì ho capito che non ce l’avrei mai fatta; (pausa e sorride) in realtà nella vita serve culo.
Nello specifico?
Quella cassettina poi finì nelle mani di alcuni ragazzi della Polygram, a loro piaceva, lo dissero in giro fino a quando la Warner cambiò la dirigenza e mi chiamarono.
Lei amava molto Guccini.
L’avvelenata è uscita quando avevo 15 anni, età per me cruciale perché coincideva con la liberalizzazione delle radio e poco dopo ho iniziato con l’Fm. I cantautori erano al loro massimo. Mio padre mi aveva regalato una chitarra, cercavo di suonare proprio L’avvelenata e a forza di studiarla ho messo a fuoco il testo, forse il più punk della musica italiana. Quel testo mi creò qualche confusione. Non capivo.
Cosa?
Mi domandavo perché Francesco Guccini che, come si diceva nel mio paese, cantava invece di lavorare, portava a casa tutti gli annessi e connessi, quindi ragazze, un po’ di soldi, l’approvazione e le riverenze, fosse così incazzato con alcuni aspetti di questo mestiere; e invece, tanti anni dopo, in una notte un po’ alcolica, mi è uscito uno sfogo simile al suo e ho pensato: “Adesso l’ho capita”. E ho scritto Caro il mio Francesco. Tempo dopo con lui e a quattro mani è nata Ho ancora la forza.
Guccini per lei.
Oltre alle doti di cantautore è una persona alla quale non si può non voler bene.
Torniamo a prima: quale aspetto non comprende il pubblico di lei?
Ognuno di noi non può capire fino in fondo l’interlocutore e questo non ci permette la migliore delle comunicazioni. Se poi fai il mio mestiere, questa storia viene decuplicata e c’è ancor più bisogno da parte di chi hai di fronte di farsi un’idea di te: vuol dire che convivi con quattro o cinque aggettivi che ti riguardano e questi quattro o cinque diventano uno schema che non smonti.
La conseguenza?
Nasce un isolamento che crea problemi.
Il suo è un mestiere di rinunce?
Assolutamente no. Intanto fatico a definirlo mestiere, è l’esercizio di una passione; (cambia tono) forse perché prima di iniziare mi sono dedicato ad alcune professioni vere, quelle per cui porti a casa la pagnotta; (pausa). Nella serie c’è una puntata intitolata Crisi, quale crisi e racconta i miei tre momenti bui sul piano professionale: uno di questi è stato durante la registrazione di Miss mondo, l’album che mi ha aiutato a non smettere.
Davvero ci pensava?
Nel 1999 avevo deciso l’addio tanto da comunicarlo ai miei musicisti; poi hanno vinto due aspetti: la domanda se potessi rinunciare ai concerti; secondo: raccontare che il successo non è solo quello che appare. E Elvis lo aveva già ampiamente dimostrato morendo da Re sulla tazza del cesso: lui aveva troppo, troppo successo, troppa noia, troppi fantasmi; scrivere un album su questi problemi ha esorcizzato il problema stesso.
Dopo il primo concerto a Campovolo con decine e decine di migliaia di presenti, non ha pensato “e adesso che m’invento”?
Non ho fatto in tempo, subito dopo è arrivato il mio assistente: “I ladri sono entrati a casa tua”; comunque “e adesso” me lo sono posto diverse volte.
All’ipotesi addio come reagirono i suoi musicisti?
Rimasero sotto choc; uno di loro nella serie racconta: “Mi dispiace perché non avevamo capito il suo malessere”.
A giugno c’è un nuovo Campovolo.
Da quando sono salito la prima volta su un palco non ho mai vissuto un periodo così lungo di astinenza da concerti: ora sono due anni e mezzo. È come se mi venisse chiesto di esercitare una forma di resistenza, come a un tossico davanti alla sua dipendenza, e non ho capito se questo periodo mi stia rivelando che posso vivere anche senza. Forse mi sarà chiaro solo quando sarò di nuovo davanti al pubblico.
Sogna il palco?
Mai a occhi chiusi, sì a occhi aperti.
Sono passati 40 anni da La voce del padrone di Franco Battiato. Tempo fa ha dichiarato di aver deciso di diventare musicista proprio a un suo live.
Era l’estate della Battiato-mania e da queste parti non si erano mai viste scene di delirio come per lui, con le forze dell’ordine impegnate per respingere i portoghesi (chi tenta di entrare senza biglietto); insomma, ero sulle panchine insieme alla mia ragazza dell’epoca, quando accanto si siedono due gnocche; (pausa) avevo pure finito il militare da poco e il mio ormone era agitato.
Quindi…
Inizia il concerto e Battiato viene sepolto da una pioggia di reggiseni e mutandine. Io allucinato. Anche perché a lui già riconoscevo tantissimi pregi, il suo Patriots è stato fondamentale durante la naja, ma non lo immaginavo come sex symbol. Nel frattempo le due accanto a me commentano: “Com’è bono”. E l’altra: “Me lo farei qui davanti a tutti”. A quel punto ho pensato: “Voglio diventare un cantante”.
Lo ha rivelato a Battiato?
No, però gli ho raccontato che Patriots e Dalla di Lucio Dalla mi hanno salvato da depressione ed esaurimento nervoso.
E a Dalla?
Sì, con tutte le mie solite resistenze da vincere e lui mi ha risposto: “Ogni cosa è frutto di un’energia speciale, e quell’album è così”.
Lei spesso cita Fabrizio De André.
L’unica volta in cui ci ho parlato è stata dopo il mio primo concerto a San Siro. Alla fine ero un po’ perso e vederlo è stato uno choc: non lo immaginavo lì e quando ci siamo trovati l’uno di fronte all’altro non ho reagito; (abbassa la voce) tempo dopo ho acquistato e utilizzato lo stesso mixer con il quale aveva realizzato gli ultimi album.
Cosa rappresenta De André?
La solidità del pensiero. E questa solidità passava dalla sua voce, per me è un aspetto cruciale: in pochissimi scandivano le parole come lui; le sue canzoni cantate da lui sono diversissime se interpretate da altri.
Lo ha omaggiato a Sanremo.
Premesso: non sono mai voluto andare al Festival per via della troppa tensione. Poi Fazio mi frega perché lancia una sfida. E non riesco mai a resistere alle sfide: “Ti do l’apertura e la chiusura”. Vado. Dovevo cantare Creuza de ma, pezzo difficilissimo perché in genovese, e prima di entrare non si apre il sipario. Poi due persone minacciano di lanciarsi dalla galleria per denunciare la loro disoccupazione.
E lei?
Appena è finita l’esibizione sono andato al primo ristorante a bermi una bottiglia di vino.
È concittadino di Tondelli. 
Ecco, se usciamo dall’ambito musicale, lui è un grosso rimpianto: non gli ho mai espresso cosa ha rappresentato per me. E qui la colpa è di una timidezza reciproca, anche perché ci siamo incontrati: abitavo nello stesso palazzo dei suoi genitori. E ricordo le sue condizioni fisiche non facili quando, con l’Aids ormai conclamata, non riusciva a salire le scale; la notte in cui è morto ero in casa, avevo la febbre e fui costretto a saltare il concerto. Sentii uno strano trambusto dentro casa sua. Altri libertini lo metto insieme a Patriots e Dalla in quell’anno da artigliere di montagna a Belluno.
Quanto le è servito un passato da operaio prima del successo?
In una fase ho lavorato a una macchina per stampi di plastica: non volevo starci, era troppo robotico, la testa annullata, quasi da Tempi moderni, ogni 23 secondi dovevo eseguire lo stesso gesto. Davanti a me c’era un collega che stava lì da 25 anni e fischiettava. Lo odiavo, volevo scuoterlo e dirgli: “Che hai nella testa”. Anni dopo ho capito la sua forza.
Sempre nella serie c’è lei all’Arena da Verona, giovanissimo e molto deciso.
Questa serie, insieme al libro, ha avuto il pregio di farmi rivedere. Non mi era mai successo. Prima sono sempre andato a palla. E nel guardarmi provo una certa tenerezza: in quella scena lì parlo ma non apro la bocca, cerco di apparire sicuro, ma non lo ero. Eppure le persone mi catalogavano come tale, e dentro di me pensavo “guarda come li sto fregando”. Questo ha funzionato pure con le donne, passavo da tenebroso.
Del suo lavoro cosa ama maggiormente?
La sensazione di aver tenuto compagnia, che qualcuno si sia sentito meno solo, nel dolore quanto nel ballo.
Chi è lei?
(Per la prima volta chiude le braccia, rallenta, ripete più volte la domanda) Come chiunque ho tante identità… sono uno che non lesina a dichiararsi fortunato, e questo potrebbe limitare le proprie qualità, ma non importa. Perché vivere questo mestiere con tutte le libertà che mi sono state concesse è stato un privilegio che mi rende molto grato.
(Francesco Guccini ne “L’avvelenata”: “Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso. Mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso. E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare. Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto”).