«In che lingua vogliamo fare l’intervista? Per me è lo stesso».
Ventidue anni, un arcobaleno di ragazzo. El Diablo sorride sempre. Figuriamoci ora, poi: campione del mondo. «Ma no, il titolo della MotoGp vinto domenica a Misano non c’entra. È che a me piace la gente: tutta, e non importa da dove vieni o qual è il colore della tua pelle.
Anzi: più sei straniero, più mi piaci. Sono fatto così: curioso». E gentile, simpatico. Leggero. «Prendo la vita con facilità. Però in pista sono un altro».
William Favero, manager della Yamaha, dice: «È un matto, con la testa sulle spalle».
«Confermo. Nella vita di tutti i giorni sono iperattivo, effettivamente un po’ pazzo. Faccio un sacco di cose.
Sulla moto mi trasformo: determinato, una voglia pazzesca di vincere. Lo psicologo mi ha aiutato a credere di più in me stesso dopo la delusione dello scorso anno, quando pensavo di prendermi il mondiale e invece sono scomparso: non è stato un vero e proprio clic, ma da quando l’ho visto la prima volta — era dicembre — sono cambiato. Mi ha aiutato a trovare la serenità anche in moto, e la costanza. La testa sulle spalle, sì».
L’impressione è che Quartararo si diverta sempre.
«E cosa ci può essere di meglio, nella vita? Faccio quello che ho sempre sognato, la mia famiglia accanto.
Sono un ragazzo semplice, allegro.
So si essere fortunato. Però la fortuna te la devi cercare».
Sui social circola una vecchia foto dal paddock: Valentino Rossi e un bimbo biondo che lo guarda adorante.
«È tutto merito di Valentino, se sono qui. Da piccolo ero grassottello, mamma Martine mi ha fatto smettere con hamburger e patatine: “Fai un po’ di sport”. Ho scelto la moto: un po’ perché ci correva già mio padre, ma soprattutto perché un giorno Rossi ha fatto una cosa incredibile. Nel 2005, quando ho visto come ha sorpassato Gibernau a Jerez, mi è scattato dentro qualcosa: “Voglio essere un pilota e diventare campione del mondo come lui”, ho giurato. Avevo 6 anni».
Però El Diablo guida come Lorenzo.
«Il mio stile assomiglia a quello di Jorge. C’è sempre da imparare: anche da Rossi, in queste sue ultime gare. Che emozione: rispetto».
Se potesse rubare qualcosa al Doc?
«I titoli. Soprattutto il suo modo di essere. La popolarità, l’entusiasmo che continua a suscitare in tutto il mondo. E vorrei avere l’aggressività di Marquez, il modo in cui Pedrosa tira su la moto, l’eleganza di Lorenzo, il talento puro di Stoner. Però sono felice di essere Fabio Quartararo».
Lo dice senza l’accento sull’ultima vocale. All’italiana.
«Forse imparerò il siciliano, un giorno. I genitori di mamma e papà erano emigrati da Palermo in Tunisia a cercare fortuna, negli anni Sessanta si sono trasferiti in Francia.
La nonna paterna ha imparato il francese solo poco tempo fa, lei sì che potrebbe insegnarmelo: purtroppo negli ultimi tempi non sta molto bene. Mi piacerebbe visitare il sud dell’Italia».
È tifoso della Juventus.
«Ho un amico che lavora nel club, a Torino: mi aveva fatto incontrare Ronaldo, Dybala, Douglas Costa, Rabiot. Bellissime persone. Tifo più per loro, che per la squadra. Ho conosciuto qualcuno anche al Milan. Come al Psg. Diciamo che prima viene la Juve. E poi mi piace il Nizza, la squadra della mia città».
Nizza è un mosaico di culture. Un po’ come lei. A volte non è semplice.
«Io accetto tutto il mondo, e penso che le città appartengano a chi ci vive. Non sono impegnato politicamente: voglio essere un atleta che cerca di trasmettere un buona immagine di sé stesso, e dare l’esempio a tanti giovani che fanno sport. Impegno, determinazione, sacrificio: ma sempre sorridendo. Quando arrivi a questo livello è giusto essere un modello per gli altri, perché possano fare bene».
Il prossimo anno correrà col numero uno sulla carena?
«No, grazie: non ne vale la pena. Valentino ha vinto 9 titoli e ha sempre tenuto il suo 46. Allora anche io preferisco restare col 20: così ho cominciato, e voglio finire la mia carriera. È tutto più semplice. Leggero».