Il grande disegno. Ora Mlodinow ha pubblicato un nuovo libro, in Italia appena edito da Hoepli, che racconta quella collaborazione scientifica e culturale, frutto soprattutto di una grande intesa umana: Stephen Hawking, storia di un genio .
Perché Stephen Hawking ha scelto proprio lei per scrivere dei libri a quatto mani?
«Stephen viveva in Inghilterra, ma ogni anno veniva al Caltech fermandosi da due a quattro settimane. In quel periodo stava cercando qualcuno con cui realizzare libri di divulgazione, ma aveva difficoltà a trovare una persona la cui scrittura gli piacesse, che avesse senso dell’umorismo e capisse anche la fisica. Poi ha letto e amato i miei primi due libri, Euclid’s Window (La finestra di Euclide ) e Feynman’s Rainbow (L’arcobaleno di Feynman ), e mi ha fatto chiamare dal suo assistente».
Come ricorda il vostro primo incontro di lavoro?
«Naturalmente, ero nervoso: lui era una rockstar! E io ero preoccupato di non riuscire a stare al passo con lui dal punto di vita intellettuale. Oltre ad essere in difficoltà nel comunicare con una persona che doveva fare un tale sforzo per esprimersi: un sensore negli occhiali rilevava le contrazioni della sua guancia e le traduceva in clic del mouse, che gli permettevano di scegliere lettere, parole o frasi da un elenco man mano che il cursore si spostava sul suo schermo. Ma non passò molto tempo prima che mi ci abituassi. Da quel momento comunicammo in modo abbastanza naturale».
Qual era il suo rapporto con la disabilità? Soffriva della sua condizione?
«È normale pensare che ne soffrisse, ma io non ho mai avuto questa sensazione. Era come se lui non sapesse di avere una disabilità, anzi una volta mi disse che la malattia lo aveva aiutato a concentrarsi, a concentrarsi sulla fisica e a fare qualcosa dalla sua vita, piuttosto che pensare solo a divertirsi come faceva quando era giovane. Lo ha aiutato a trovare uno scopo e la concentrazione per perseguirlo».
Proprio nella scena iniziale, quella del funerale, lei scrive: “Hawking era un uomo profondamente spirituale”. In cosa credeva?».
«Non nell’esistenza dell’anima o nella vita dopo la morte. Ma credeva nello spirito umano. E che noi che fossimo parte della Natura proprio come gli altri animali e la Terra stessa».
Quali sono i meriti di Hawking come scienziato?
«Aldilà delle sue singole teorie, aveva una grande apertura mentale: era sempre pronto a rivedere le sue convinzioni se i dati sperimentali o la matematica le contraddicevano. E soprattutto lui pensava in modo geometrico, in termini di relazioni di oggetti nello spazio, piuttosto che in termini di equazioni. E questo lo rendeva quasi unico tra i fisici».
E i suoi meriti come divulgatore?
«Negli anni Ottanta, quando Stephen scrisse Dal big bang ai buchi neri , non c’erano molti libri di divulgazione scientifica e quel tipo di mercato editoriale era piccolo. Lui è stato un pioniere anche in questo: ha dimostrato che perfino gli scienziati più esigenti potevano scrivere libri che catturano l’immaginazione delle persone. Sembra ovvio oggi, ma non lo era allora».
Hawking è stato un’icona, un personaggio pop: questo ha contribuito al successo dei suoi libri?
«Quando è uscito il suo primo libro non era un personaggio pop. È stato il libro a trasformarlo in una star. Poi ovviamente, man mano che la sua fama cresceva, questa ha alimentato la domanda per i suoi libri. E a sua volta, la richiesta dei suoi libri ha costruito la sua celebrità».
Già quando era ancora invita, Hawking è stato raccontato in libri biografici, per esempio quello scritto dalla prima moglie Jane Wilde, da cui è poi stato tratto il film “La teoria del tutto”. Lei però scrive che “molti dettagli della sua vita non corrispondevano a ciò che descrive il film che Hollywood gli ha dedicato”. Quali dettagli?
« Per esempio, l’idea della radiazione del buco nero (una delle principali teorie elaborate da Hawking, ndr) non gli è venuta mentre fissava il fuoco nel camino. Era pura finzione».
Quando ha capito di essere diventato suo amico?
«Ho realizzato che stavamo diventando sempre più intimi solo il giorno che la sua assistente Judith mi ha detto che ero uno dei suoi migliori amici e che Stephen non vedeva l’ora di ricevere le mie visite».
Le ha mai confessato un sogno?
«Quello di volare nello spazio.
Richard Branson gli aveva promesso un ‘passaggio’ sulla sua navetta che stava per essere messa a punto, ma Stephen non è vissuto abbastanza a lungo per andare in orbita».
Cosa le manca oggi di Stephen Hawking?
«Un sacco di cose. Ripenso con affetto ai giorni di lavoro con lui e alle serate in cui cenavamo insieme. Era sempre una fonte di ispirazione».
E cosa le ha lasciato?
«Mi ha mostrato che con una forte volontà puoi resistere a tutto. Dopo averlo conosciuto ho capito che i guai della vita, qualunque siano, sono davvero poca cosa e possono essere affrontati con forza e umorismo».