Corriere della Sera, 31 ottobre 2021
Mezzo milione di lavoratori dopo il Covid si è dimesso
Per domani a mezzanotte è fissato un appuntamento che tanti sembrano aver dimenticato. Eppure era stata un’ossessione italiana per mesi. Dal primo novembre finisce l’unico blocco dei licenziamenti mai deliberato nella storia della Repubblica dopo quello siglato dai fondatori sulle macerie del fascismo nell’estate del 1945. Il regime attuale era partito nel febbraio del 2020. Era poi terminato a fine giugno scorso per le imprese medio-grandi della manifattura e dell’edilizia.
Così i primi divieti stabiliti all’inizio della prima ondata pandemica erano venuti meno a seguito di un negoziato snervante fra governo, partiti di maggioranza e sindacati. Quel passaggio riguardava quattro milioni di lavoratori e mobilitò l’Italia per settimane. Questo invece riguarda oltre dieci milioni di lavoratori eppure avviene nel silenzio, come in silenzio quasi mezzo milione di persone si sta licenziando ogni tre mesi oggi.
L’unico segno della svolta di fine ottobre si è avuto con il prolungamento della cassa integrazione Covid (gratis per le imprese) di due o tre mesi per alcuni settori vulnerabili: tessile, pelletteria, abbigliamento, oltre a commercio, artigianato o a tutti i servizi fra i quali l’accoglienza e la ristorazione. Chi attiva la cassa Covid, per quella durata di tempo, non potrà licenziare.
La sostanza è però che i sindacati oggi sembrano mobilitati solo a difesa della controriforma delle pensioni imposta dalla Lega di Matteo Salvini nel 2018. Anche partiti sono distratti dalle loro emergenze, forse perché la fine del blocco su industria e edilizia ha prodotto contraccolpi limitati. In estate i licenziamenti dell’industria non sono stati più di quelli degli stessi mesi del 2019.
Sotto la calma apparente indotta dalla ripresa tutto però è in movimento. Il mondo del lavoro emerge dalla pandemia con alcuni tratti paradossali, su tre piani: nella grande ripresa del lavoro degli ultimi mesi le donne restano indietro sugli uomini; le imprese faticano terribilmente a trovare manodopera, anche se gli occupati sono ancora molti meno di prima della pandemia; nel frattempo, mai tante persone hanno preso a licenziarsi. Sono i tre enigmi del mondo del lavoro post-Covid, la cui spiegazione è probabilmente in gran parte comune.
Questione femminile
I più recenti dati destagionalizzati delle forze di lavoro dell’Istat rivelano in Italia una ripresa a doppia velocità. Ad agosto gli uomini avevano già recuperato il 57% dei posti perduti fra il gennaio 2020 e gennaio 2021, il momento peggiore nella recessione da Covid. Il lavoro femminile invece sta ripartendo più piano, perché ad agosto erano state recuperate appena il 36% delle posizioni. La distruzione di lavoro nel complesso è stata di pari intensità per uomini e donne, con la perdita di 530 mila impieghi per gli uomini e 356 mila per le donne nel primo anno di pandemia: un colpo di falce drammatico, ma più o meno proporzionale per i due sessi in un mondo del lavoro che in Italia per il 58% è presidiato da uomini e per il 42% delle donne. Da gennaio però sono stati riattivati 303 mila posti maschili e appena 128 mila femminili. Una nota della Banca d’Italia sul mercato del lavoro spiega lo scarto con la crescente «difficoltà (per le donne, ndr) di conciliare l’attività lavorativa con i carichi familiari». Probabile che molte rinuncino al lavoro, vedendo i salari assorbiti in gran parte dal costo di baby sitter e aiuti domestici.
Il grande abbandono
Francesco Armillei, un ricercatore della London School of Economics e di Tortuga ha trovato nelle «comunicazioni obbligatorie» del ministero del Lavoro gli stessi segni, per l’Italia, di quella che negli Stati Uniti viene chiamata la «Great Resignation»: le dimissioni di massa. Con l’allentarsi della pandemia, molte più persone stanno lasciando volontariamente. Armillei scrive sulla voce.info che solo fra aprile e giugno scorsi si sono dimesse in Italia poco meno di mezzo milione di persone, 292 mila uomini e 191 mila donne. È un balzo del 37% rispetto alla stessa fase di un anno prima e comunque un livello superiore anche ai tempi di ordinaria stagnazione del 2019. La quota di abbandono volontario sul totale degli occupati ha superato il 2% per la prima volta da anni, a livelli non lontani da quelli degli Stati Uniti. Sia Armillei che Andrea Garnero dell’Ocse avvertono che è troppo presto per capire perché così tanta gente getti la spugna. «Forse sono in corso aggiustamenti dovuti al rimbalzo dell’economia – dice Garnero –. Forse invece siamo di fronte a un salto quantico del mercato del lavoro, una forte riallocazione da lavori in settori in declino ad altri più produttivi».
La contraddizione
La stessa incertezza avvolge l’altro grande paradosso di questi mesi. L’Istat mostra che ad agosto scorso gli occupati erano ancora quasi mezzo milione in meno rispetto a prima della pandemia. Le cicatrici di Covid nella società sono ancora fresche. Eppure quasi tutti i ventiquattro settori principali dell’economia italiana (meno le miniere e la finanza) comunicano all’Istat i massimi livelli di difficoltà a trovare nuovi addetti da quando esistono statistiche in proposito. In sostanza ci sono in Italia molti meno occupati rispetto a prima di Covid, ma le imprese faticano a riempire i posti vacanti. È un fenomeno particolarmente evidente nei servizi turistici, in quelli di informazione e comunicazione e nelle professioni «scientifiche e tecniche». Fabio Pompei di Deloitte ha detto a un recente evento della Fondazione Bellisario che trovare un manager in Italia è diventato ormai arduo. In parte pesa la carenza di competenze per svolgere le funzioni ricercate oggi dalle imprese. Alcuni italiani stanno anche rivedendo le proprie priorità, fra lavoro e vita privata. Di certo l’Italia è nel pieno di un colossale riassestamento dopo un sisma economico e sociale, non solo sanitario. Se ne uscirà dormiente come prima, o trasformata in meglio, è la grande domanda di questi mesi.