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 2021  ottobre 31 Domenica calendario

I due matematici di Padova che aiutarono Einstein

«Devi aiutarmi, altrimenti divento pazzo!». Quanti studenti hanno sussurrato questo appello ai primi della classe durante un compito di matematica? Ebbene, sono in buona compagnia.
A pronunciare la fatidica frase fu infatti nientemeno che Albert Einstein, rivolgendosi al matematico svizzero, suo amico di lunga data, Marcel Grossmann. Certo, non si trattava di un compito in classe, ma della teoria della Relatività. Ma anche lui, nel 1912, era oppresso da problemi matematici assai complicati. Stava lavorando al completamento della teoria della Relatività con l’inserimento della gravità, la cosiddetta Relatività generale. Le intuizioni fisiche erano lì, così come l’architettura del suo pensiero, ma la formalizzazione matematica richiedeva uno sforzo formidabile. Einstein era d’altro canto perfettamente conscio delle parole che Galileo aveva scritto ne Il Saggiatore: «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua, e a conoscere i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».
Tre secoli dopo Einstein stava rivoluzionando la descrizione dell’universo e aveva bisogno della lingua matematica. Ma i «caratteri» fino ad allora noti non gli bastavano più. Ne occorrevano di nuovi. Ecco allora che chiese aiuto. Grossmann lo indirizzò ai risultati ottenuti nel 1900 da Gregorio Ricci Curbastro, professore di matematica all’Università di Padova, e dal suo allievo Tullio Levi Civita. Fu la svolta. Un nuovo dizionario si aprì davanti agli occhi di Einstein. Tra la sua fisica e la matematica di Ricci e Levi Civita c’è un rapporto strettissimo: la usò per sviluppare la sua teoria e contemporaneamente la promosse a fondamentale co-protagonista della rivoluzione relativistica. Intrattenne in quegli anni una fruttuosa corrispondenza con i matematici italiani che intensificò il suo legame col nostro Paese, iniziato ai tempi della giovinezza. Al seguito della famiglia trascorse infatti periodi felici tra Pavia e Milano, dove il padre aveva avviato un’impresa elettrotecnica.
Quando Federigo Enriques, docente all’Università di Bologna, lo invitò a tenere una serie di conferenze, Einstein accettò quindi volentieri. Le tre lezioni ebbero luogo un secolo fa, il 22, 24 e 26 ottobre del 1921. Einstein arrivò in treno quasi in incognito. Gli studenti che erano stati incaricati di accoglierlo osservavano i viaggiatori che scendevano dai vagoni di prima e seconda classe, ma Einstein scese da uno di terza. Lo riconobbero, come ricorda Adriana, studentessa e figlia di Enriques, per «l’aspetto imponente e per il cappello nero a larghe falde come quello che portavano gli artisti».
Le lezioni furono un enorme successo. Einstein parlò in italiano e, come raccontano Linguerri e Simili nel libro Einstein parla italiano, «l’impatto sul pubblico fu teatrale, simile a quello di un divo del bel canto su una scena lirica». La sua notorietà globale, che già all’epoca oltrepassava i confini della scienza, non scalfì però la sua umanità e il suo rigore scientifico. Il 27 ottobre proseguì infatti per Padova. Volle andare nell’Università dove aveva insegnato Galileo per conoscere finalmente di persona ed esprimere la sua gratitudine, durante un’altra affollatissima lezione, a Ricci Curbastro, lo scienziato che gli aveva fornito i pilastri matematici sui quali costruire la Relatività generale e che non era potuto andare a Bologna.
Il legame tra Einstein e l’Italia rimarrà stretto e il fisico non mancò di far sentire la sua voce quando il nostro Paese sprofondò nell’incubo del nazi-fascismo. Sempre nel 1921 era stato eletto socio dell’Accademia dei Lincei. Quando nel 1938 vennero promulgate le leggi razziali si dimise per solidarietà con i colleghi ebrei italiani. Fu reintegrato a liberazione avvenuta, nel 1946. Nel 1931 non esitò a scrivere al ministro di Giustizia, Alfredo Rocco, per invitarlo a desistere dall’intento di imporre ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al fascismo. L’appello fu vano, ma ancor oggi le parole di Einstein riecheggiano come un monito a difesa della libertà e del valore della scienza: «Per quanto diverse possano essere le nostre convinzioni politiche, io so che v’è un punto fondamentale che ci unisce; entrambi riconosciamo e ammiriamo nello sviluppo intellettuale europeo il bene più alto. Esso si fonda sulla libertà di pensiero e di insegnamento e sul principio che la ricerca della verità deve precedere ogni altro fine... Non è mia intenzione discutere con lei le giustificazioni che la ragion di Stato può avanzare circa gli attentati alla libertà umana. Ma la ricerca della verità scientifica, svincolata dagli interessi materiali di tutti i giorni, dovrebbe essere sacra a ogni governo, ed è per tutti del più alto interesse che i leali servitori della verità scientifica vengano lasciati in pace».
(l’autore è professore di fisica della materia, Università di Padova)