La Lettura, 31 ottobre 2021
Com’è il nuovo libro di Ken Follett
«Tutte le catastrofi cominciano con un piccolo problema che non viene risolto». E Pauline Green, prima presidente donna degli Stati Uniti, un metro e cinquanta di fede repubblicana e saggezza, ne ha svariati. Tipo un’irrequieta figlia adolescente, Pippa, che si fa le canne e pretende di imporre ai suoi professori lo studio del genocidio degli indiani d’America alla pari dell’Olocausto. Un marito, Gerry, bello, arguto e servizievole nel ruolo di First Gentleman anche se ormai poco erotico. Un fidato consigliere per la sicurezza nazionale, Gus Blake, afroamericano, solido e molto erotico. Un vicepresidente sessantenne e spericolato, Milton Lapierre, che ha perso la testa per una sedicenne. E un avversario dentro al suo stesso partito, James Moore, che indossa con spavalderia trumpiana soltanto giacche texane, le contende la nomination per la Casa Bianca e non disdegnerebbe di radere al suolo la Cina con le bombe atomiche. E fin qui i problemi familiari, sentimentali e politici della presidente, tutto sommato non complicatissimi da gestire. Perché gli altri che irrompono nello Studio Ovale, piccoli singolarmente ma grandi come incubi se messi insieme, rischieranno invece di provocare una Terza guerra mondiale che si tradurrebbe in una catastrofe certa, appunto.
Con Per niente al mondo (Mondadori) stavolta Ken Follett fa un salto nel tempo dal suo appassionato anno Mille e atterra nuovamente in questo nostro secolo, dove con colpevole distrazione bruciamo in fretta le informazioni sulle (piccole) crisi geopolitiche quotidiane senza renderci conto di quanto siano collegate una all’altra, persino a distanza di un emisfero. E senza comprendere come possano rappresentare un pericolo globale.
Crisi di narcisismo, talvolta. Come quella del presidente-dittatore golpista del Ciad, meglio conosciuto come il Generale, che dal suo trono di sabbia crede di poter giocare alla pari con Washington e Pechino. O come quella del leader supremo Kang U-jung, affamatore del popolo nordcoreano, ma con in tasca una buona scorta di armi nucleari con cui ricattare i suoi padrini cinesi. Due classici casi da lettino dell’analista, se fosse possibile. Ma in mancanza di un’opzione psichiatrica, il problema è come tenerli lo stesso sotto controllo per evitare che combinino guai. E lo strumento per farlo, manco a dirlo antico come il mondo, si chiama: intelligence. Non solo quella tecnologica, che ha già mostrato clamorosamente i suoi limiti (vedi l’11 settembre). Ma un mix di techint e humint. Di satelliti spia e agenti sul campo, per dire.
Adesso immaginate un teatro d’azione che vada dal Sahara al Mar della Cina. E un pugno di agenti con la testa sulle spalle assai più di quanto l’abbiano i loro capi, ministri e presidenti. Immaginate un’operativa trentenne fascinosa e riservata che si chiama Tamara e dal quartier generale della Cia di Langley è stata assegnata alla stazione di N’Djamena. Fluente in arabo e, diciamo così, anche nel tiro di precisione. Concentrata nella caccia allo spietato leader dello Stato Islamico del Grande Sahara (Sigs), un califfato modello Isis, e alle basi operative dei jihadisti nascoste nel deserto.
Poi immaginate un giovane di ascendenza algerina con papà petroliere, Tabdar Sadoul detto Tab, anche lui piazzato nella capitale ciadiana con lo stesso compito di Tamara dalla Dgse (la Direction Générale de la Sécurité Extérieure), il servizio di spionaggio francese all’estero. E infine, con un salto di diecimila chilometri e spicci fino all’inquinatissima Pechino, immaginate Chang Kai, quarantacinquenne agente del Guoanbu, il servizio d’intelligence cinese, a cui stanno stretti gerarchia e rituali dei mandarini al potere, per giunta sposato con Ting, attrice di soap televisive che fa girare la testa a mezza nomenclatura.
Ecco, è a loro, a quelli nell’ombra come loro, che il mondo che corre insensatamente verso l’orlo dell’abisso dovrà molto, se non tutto.
Ma al risiko immaginato da Follett non partecipano soltanto i grandi della Terra. Ci sono anche gli ultimi. Quelli che dal Sahara fuggono con addosso quattro stracci e un paio di ciabatte ai piedi e s’incamminano, letteralmente, verso l’Europa nella speranza di agguantare un futuro dove qualsiasi lavoro, persino il più umile, rappresenta un sogno. Viaggi della vita, ma più spesso della morte. Come quello che intraprende Kiah, vedova con un figlio di due anni e un profilo aristocratico, sborsando duemila dollari (risparmi di almeno un paio di esistenze) a un untuoso trafficante di esseri umani che a sua volta la rivenderà come schiava sessuale proprio ai jihadisti. La sua fortuna sarà quella di incrociare un agente della Cia sotto copertura, un libanese di nome Abdul, che più che combattere per la causa dello zio Sam combatte per vendicare la sua sorellina dilaniata dalla bomba di un terrorista a Beirut. Un campione di arti marziali che ha in testa un solo obiettivo: individuare il nascondiglio del capo del Sigs, uomo senza volto il cui unico segno di riconoscimento è il pollice mozzato di una mano.
C’è un filo rosso che lega i «piccoli problemi che, se non risolti, possono provocare una catastrofe»: le armi. Un filo che si dipana dalla Cina alla Corea del Nord, dal Ciad al Sudan, e non fa sconti nemmeno alle responsabilità americane. Un mercato sconfinato in crescita costante che ingolosisce i produttori, «Stati canaglia» spesso. Ma non sono solo mitra e pistole, ormai. Le armi che infestano il mondo diventano ogni giorno più sofisticate e micidiali.
Possono essere persino missili terra aria o addirittura droni da trenta milioni e più di dollari, che nelle mani di dittatori e terroristi diventano strumenti capaci di provocare rischiose crisi internazionali. Ed è esattamente ciò che accade in questo thriller di Follett. Dove la miscela tra quel narcisismo patologico di cui sopra e la smania di affermazione del potere a ogni costo da parte dei folli sparsi sul pianeta impiega un attimo a rimbalzare sulle loro superpotenze tutrici, rischiando di fare scivolare un confronto muscolare dalla modalità convenzionale a quella nucleare. Arrivati a quel punto, interrompere l’escalation azione/reazione potrebbe diventare impossibile.
E dalla finzione alla realtà, gli esempi in progress non mancano di certo. Chissà se, scrivendo, Follett avrebbe mai immaginato di vedere davvero i caccia cinesi violare per 159 volte in un solo giorno lo spazio aereo di Taiwan. Così, tanto per mettere in chiaro quali sono le mire di Pechino.
E tanto per mettere in chiaro, chissà se avrebbe immaginato d’assistere all’indignazione del presidente francese Emmanuel Macron, che si è visto stracciare dagli australiani il contratto per la fornitura di un lotto di sottomarini con cui pattugliare il Pacifico dove Pechino si allarga giorno dopo giorno. E di vedere quello stesso contratto rimpiazzato da un’altra fornitura di sottomarini, stavolta a propulsione nucleare, venduti da americani e inglesi in nome di una nuova alleanza sempre in funzione anti-cinese.
Ma senza badare al Risiko Grande, chissà ancora se avrebbe immaginato che il Sudan, al centro del suo romanzo, è scosso proprio in queste settimane da un golpe consumato all’ombra della solita Cina, che di quel Paese che a Nord lungo il Nilo ospita le misteriose tombe dei faraoni neri possiede le chiavi di tutte infrastrutture civili e militari. Per non dire del Sahara, sabbia su cui muoiono le speranze di migliaia di migranti schiavizzati, stuprati, derubati, in fuga da guerre e siccità e si muovono agilmente jihadisti dell’Isis e al Qaida nei loro mordi e fuggi stragisti.
Insomma, non sempre è prevedibile a tavolino il risultato di quei «piccoli problemi non risolti». Soprattutto quando si incatenano in una sequenza che nemmeno le War Room abitate dalle menti strategiche più raffinate riescono a controllare. Non sempre è prevedibile la capacità di quei politici nelle cui mani abbiamo messo il nostro destino di disinnescare una situazione di crisi che fa correre il pianeta verso il baratro. Non sempre le Tamara, i Tab, gli Abdul e i Kai, per quanti sforzi facciano e per quante informazioni veicolino rischiando la pelle, sono in grado di influenzare le scelte di chi li comanda. «La Prima guerra mondiale è stata una guerra che nessuno voleva... Eppure, a uno a uno, imperatori e primi ministri presero decisioni – decisioni logiche e ponderate – ognuna delle quali condusse, a piccoli passi, al peggiore conflitto che il mondo avesse mai conosciuto», scrive Ken Follett nella sua introduzione a Per niente al mondo. Ma il titolo originale inglese è un altro: Never, mai. Ecco, potessimo aggrapparci a quel Mai, forse avremmo una chance di interrompere la sequenza mortale dei «piccoli passi» che conducono alla catastrofe. Non nella finzione, nella realtà. Forse.