La Lettura, 31 ottobre 2021
Le nascite dal 2008: un terzo in meno
Nascite in Italia dal 1° gennaio al 31 luglio 2021: 220.298. Negli stessi sette mesi del 2020 le nascite furono 231.313. In sette mesi si sono perse 11 mila nascite, pari a quasi il 5 per cento. Se continuerà così chiuderemo l’anno attorno a 385-387 mila unità, 17-19 mila meno del 2020. Niente di eccezionale, viene quasi da dire, considerando che ormai di anno in anno non facciamo che ripetere il refrain più abusato: nuovo primato negativo delle nascite in Italia. Seguono dati di cui nessuno ormai mostra più di meravigliarsi. Tutto di eccezionale, viceversa, se questo ulteriore dato viene letto da una angolazione leggermente diversa: nel 2008 le nascite in Italia erano 577 mila, dunque alla fine di questo 2021 avremo lasciato sul terreno 190 mila nascite annue, un terzo esatto delle nascite del 2008. Un terzo di nascite in meno in tredici anni. Qualcuno può divertirsi a estrapolare questi dati per il futuro immediato. A quando le nascite zero? A presto, signora mia, a presto.
Si scherza (ma mica poi tanto) per non piangere. Persino i Paesi dell’Europa dell’Est, sovranisti, chiusuristi (verso i flussi migratori), redditi personali e famigliari bassi, economicamente lillipuziani sulla scena del mondo, mica come la (quasi) corrazzata Italia, pur sempre stabilmente nella «top ten» delle potenze economiche mondiali, perfino loro, o almeno alcuni di loro, di fronte al rischio estinzione hanno reagito con energia, impegnato risorse, dato il «la» a politiche di inclusione nel lavoro e nella casa dei giovani che stanno dando dei frutti. E l’Italia? Dall’Italia stiamo ancora aspettando un segnale di reazione che sia chiaro e leggibile da tutti. Che però tarda.
C’era la pandemia da tenere sotto controllo. E sia. E c’era la situazione economica da rimettere in movimento. Siamo d’accordo. E c’è ovviamente il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dopo ch’è stato finalmente definito, da impiantare, seguire, monitorare in tutti i suoi aspetti e progetti per portarlo al suo approdo più soddisfacente e salvifico per le sorti del Belpaese. D’accordo a maggior ragione anche su questo. Ma resta la domanda: per una popolazione, quella italiana, malinconicamente avviata anzitempo sul viale del tramonto, malferma, sbilenca, acciaccata, invecchiata, incapace di qualsivoglia reazione, una popolazione che tutti quelli che si interessano di demografia, di organismi che hanno questo nome – popolazioni – danno sostanzialmente per spacciata entro la fine del secolo, per questa popolazione chi fa concretamente qualcosa? E se c’è chi fa qualcosa, che cosa fa?
Ma è proprio il Pnrr, ci si obietta, la sua impostazione, la sua realizzazione, che rappresenta la soluzione anche del problema «popolazione italiana» – possibile non capirlo? Parlo per me e confesso: no, non l’ho capito. Perché non vedo chiarezza.
Punto primo: il Pnrr avrebbe dovuto avere il problema demografico, ovvero il problema di una popolazione, quella italiana, morente, e sottolineo morente, come suo asse portante attorno al quale tutti gli indirizzi e progetti avrebbero dovuto ruotare. È così? Non è così. In una peraltro fluida, motivata, perfino accattivante premessa a firma Mario Draghi si accenna alla fragilità sociale, economica e ambientale del Paese, per significare che la cura di questa fragilità è il punto di partenza e sviluppo di tutto il Pnrr. La fragilità demografica, la prima in ordine di importanza e gravità, non è citata. Un richiamo alle problematiche demografiche, peraltro generico e molto en passant, lo troviamo quando si parla di politiche per i giovani e politiche per le donne nell’ambito delle cosiddette «Priorità trasversali», a loro volta inserite nel primo capitolo denominato «Obiettivi generali». Generali, appunto, di davvero specifico, al riguardo, al più tracce.
Punto secondo: obiettivi e scadenze. Ci sono forse nel Pnrr obiettivi che riguardano il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna, con l’Italia pronta a precipitare alla soglia dell’inconsistenza di 1,2 figli) o quello di natalità (scenderemo a 6,4 nati l’anno ogni mille abitanti, con l’Unione Europea a 9, il 40 per cento di più)? Non ci sono. Troppo difficili da stabilire? Assolutamente sì. Ma se una popolazione è avviata verso il tramonto e l’atto più importante che riguarda il Paese per i prossimi 20 anni, quando ogni possibile finestrella di uscita sarà non si dica chiusa ma murata, non è capace di stabilire obiettivi e scadenze al riguardo, e di commisurare il tutto a questi obiettivi e a queste scadenze, allora si deve concludere che non c’è negli organi della rappresentanza politica e nelle classi dirigenti del Paese una coscienza sufficientemente netta e avvertita del punto a cui è arrivata la popolazione italiana.
Dov’è arrivata la popolazione italiana non ce lo dice soltanto il fatto – ch’è un fatto enorme, anzi abnorme – che l’Italia ha perso un terzo delle sue nascite annue in un tempo così assurdamente breve di tredici anni. Ce lo dicono anche altri elementi, ad esso collegati.
Il primo: la discesa ininterrotta delle nascite. Dal 2008 al 2021 non c’è un solo anno in cui questa discesa si sia fermata, un solo anno in cui non si sia registrata, rispetto al precedente, una rilevante contrazione delle nascite. Si sono perse mediamente, dal 2008, 14.589 nascite annue, oscillando tra un minimo di 6.913 nascite perdute nel 2010 e un massimo di 19.663 nascite perdute nel 2019, con una tendenza – non bastasse – a un numero di nascite perdute che cresce mediamente nel tempo.
Il secondo: la pressoché assoluta uniformità territoriale del crollo delle nascite dal 2008 a oggi. Nord-Est, Sud e Isole perdono nella stessa esatta misura, il 31 per cento delle nascite; un poco di più perde il Nord-Ovest, quasi il 34 per cento; ancora un poco di più, ed è il risultato peggiore, il Centro: poco meno del 38 per cento.
Ora, se consideriamo assieme il primo e il secondo elemento, ovverosia una perdita delle nascite che procede minacciosamente di anno in anno, di anno in anno non risparmiando alcuna area territoriale, ma tutte investendole pressoché con la stessa intensità, la stessa, mi si permetta l’espressione, furia iconoclasta, si capisce bene che ci troviamo di fronte a un fenomeno capace di travolgere la popolazione italiana e la stessa Italia nel tempo di decenni. Decenni, non secoli.
E c’è un terzo elemento ancora, perché quel che la perdita delle nascite unisce il movimento migratorio invece divide. Cosicché mentre il Centro-Nord è alleviato dal movimento migratorio, che essendo positivo ottunde e stempera il disastro della differenza tra nascite e morti, nel Mezzogiorno il movimento migratorio minaccia di aggravare quel disastro perché qui le nascite precipitano senza neppure quel paracadute. Cosicché il crollo delle nascite scompensa il Paese paradossalmente proprio per essere ormai equidistribuito su tutto il Paese. Se prima infatti le maggiori nascite del Mezzogiorno consentivano a quest’area di tenere il passo nonostante molti partissero da queste terre senza essere rimpiazzati da flussi migratori esterni che preferiscono fermarsi e stabilirsi al Centro-Nord, oggi il Mezzogiorno si ritrova a perdere abitanti tanto per le nascite quanto per gli immigrati che latitano. Così, nessuna sorpresa se, mentre le nascite calano ovunque, le province che perdono più abitanti sono tutte concentrate nel Mezzogiorno. Tra il 1° gennaio 2018 e il 31 luglio 2021 – limitiamo il periodo proprio per dare conto delle tendenze attuali – 17 province italiane hanno accusato una perdita di oltre il 4 per cento della loro popolazione (e mediamente di più dell’1 per cento annuo), e sono tutte del Mezzogiorno. Nell’ordine, a partire da quella che perde di più: Caltanissetta, Enna, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Agrigento, Isernia, Campobasso, Potenza, Oristano, Catanzaro, Foggia, Benevento, Sud Sardegna, Nuoro, Avellino, Catania.
Potremmo, quarto elemento, provare a spingere lo sguardo oltre i prossimi dieci anni. E chiederci: che ne sarà della popolazione femminile in età fertile (quella di 15-49 anni) quando, a partire da allora, sarà alimentata da un numero a tal punto fisiologicamente inadeguato di nascite? Che ne sarà di quella popolazione sulla cui consistenza si fonda ogni possibilità di vitalità demografica e ch’è in Italia già oggi tanto scarsa e tanto al di sotto di quel che dovrebbe essere per sostenere quella vitalità?
La domanda, ahimè, porta a risposte obbligate che ciascuno potrà darsi senza che ci sia bisogno di scriverne. E tuttavia un’ultima considerazione la perdita di un terzo delle nascite negli ultimi tredici anni impone con la forza dei fatti, della realtà. La popolazione italiana è preda di un istinto di sopravvivenza tutto immediato e chiuso nell’oggi, sempre meno capace di spingersi oltre i confini delle proprie personali esistenze, per un lato intimorito da ciò che potrebbe essere e per l’altro convinto di dover incamerare quanto più è possibile di ciò che il presente può offrire.
Il figlio unico, traducendo questo istinto in termini di coppia e famiglia, ha rappresentato il punto di equilibrio tra speranze e paure, tra possibilità e costrizioni. Per questo ha avuto tanto successo negli ultimi tre-quattro decenni. Ma trattasi di un punto di equilibrio che traslato dal piano individuale e della singola famiglia al piano dell’intera popolazione si trasforma sic et simpliciter in un destino di esaurimento di quella popolazione. Un destino di esaurimento perfettamente a portata di mano, viene da dire, oggi che uno sprofondo indicibile delle nascite ci svela come la propensione al figlio unico stia drammaticamente virando non già verso i due figli che ci salverebbero, bensì verso gli zero figli che ci condannano inesorabilmente. Attenzione, perché una tale, decisiva virata ha un solo, chiarissimo significato: la popolazione italiana è preda di una pulsione suicida della quale non è evidentemente cosciente, ma che agisce come un agente sotto copertura nel profondo delle sue viscere che sono fin troppo facilmente infiltrate da misture fatali di ingenuità e calcolo, di inavvertenza e cinismo.
Qualcuno pensa che ci vorrebbero tanti asili nido in più e misure analoghe e la cosa si sistemerebbe o quasi. Lo stesso Pnrr non è del tutto immune da certe così comode e inoffensive e drammaticamente pericolose, perché distraenti, suggestioni. Cosicché non resta che ricordare in primis al governo italiano, a Draghi, la novità che pure così novità non è: abbiamo perso, l’Italia ha perso un terzo delle nascite negli ultimi tredici anni. L’Italia è l’ultimo Paese al mondo per numero di nascite per mille abitanti. L’Italia sarà tra i primi Paesi al mondo a sperimentare che cos’è il tramonto di una popolazione. Forse non è troppo tardi per ricordarsene, nel Pnrr o al di là di esso.