Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  ottobre 29 Venerdì calendario

Biografia di Ilenia Pastorelli raccontata da lei stessa

Ilenia Pastorelli il 24 dicembre compie 36 anni. «Nascere quel giorno è una sfiga totale, un sotto-compleanno. Lo festeggio il giorno prima e il giorno dopo. Che però è Natale! Tutti a risparmiare, amici e parenti mi fanno un solo regalo, però è grande, aggiungono. Mica è vero...». È diventata una delle attrici più richieste, da Carlo Verdone al nuovo film di Dario Argento, nel mezzo Pif in E noi come stronzi rimanemmo a guardare, in anteprima alla Festa del cinema di Roma e a fine novembre su Sky. 
La parolaccia a un certo punto non c’era più.
«Pif prima dell’uscita l’ha tolta, l’ha rimessa... Secondo me è più efficace così. Il film affronta temi importanti: la solitudine e il dominio della tecnologia, processo inevitabile ma con risvolti pessimi nelle relazioni». 
Lei è tecnologica? 
«È un mondo separato, uso i social in maniera funzionale, metto una foto per l’uscita di un film. Durante il lockdown la tecnologia c’è stata di conforto, sentivamo i nostri familiari via Skype... Ha pro e contro, diventa maligna quando se ne fa un abuso e si usa in modo distorto, quando si scatenano ondate di insulti immotivati. Nel film, un ragazzo crea un colosso della tecnologia, una multinazionale delle App che diventa l’estensione di se stesso, una sua proiezione mentale per approfittare di persone disperate». 
E lei impersona un ologramma. 
«Vendo sentimenti in abbonamento, sono una disperata che trova un lavoro come un altro, devo essere precisa, vestita bene, parlare bene e soddisfare le aspettative altrui». 
Fabio De Luigi è l’inventore dell’algoritmo che si ritrova disoccupato e si ricicla come rider. Lei da ragazza si è arrangiata con lavoretti sottopagati?
«Sono chiamati lavoretti ma per me erano lavori di passaggio, ci sono persone che ci campano famiglie, non c’è niente di male. È lo sfruttamento che non va, so cosa vuol dire. Quando facevo l’agente immobiliare me ne andavo in giro tutto il giorno per acquisire vendite e fare ricerche: non venivo pagata fino all’atto della vendita, il che è assurdo. Poi ho fatto tante altre cose, dalla rappresentante di vestiti alla cameriera, lì però almeno mi divertivo, preparavo gli aperitivi, c’era la musica». 
Lei è cresciuta vicino a Tor Bella Monaca, c’è tutta una mitologia su quel quartiere. 
«Sono cresciuta lì vicino, a Torre Angela, fino a dieci anni, poi siamo andati alla Magliana, altra zonetta che te la raccomando, ora è fricchettona, è migliorata. Tor Bella Monaca è un quartiere costruito trent’anni fa, era tutto nuovo quando ero bambina. Le case costavano poco, al centro se tutto andava bene arrivavi in tre quarti d’ora. È una realtà molto semplice, c’era libertà, non mi imbarazza esserci nata». 
Però se il neosindaco Gualtieri come prima cosa dice che bisogna aprire una libreria e dare riferimenti culturali a Tor Bella Monaca...
«È diventata la periferia simbolo. Io dico che prima di pensare alle librerie bisogna pensare alle strade, a come sono ridotte. Dopo passiamo ai libri. Tutte le periferie da questo punto di vista fanno schifo, a Prima Porta quando piove si allaga tutto». 
Si può dire che lei fa questo mestiere per una rotatoria? 
«Avevo il provino per il Grande fratello, all’epoca lavoravo in uno showroom, avevo fatto tardi, c’era traffico e a un certo punto pensai di rinunciare, è stato grazie a una rotatoria che ho trovato una strada libera e mi sono presentata». 
Che esperienza è stata il Grande fratello? 
«Ognuno dei partecipanti, quando esce, la racconta a modo proprio. In realtà non ho molti ricordi. Non ho più visto gli altri concorrenti. Rinchiusa per cinque mesi, senza cellulare, senza niente. È stata tosta. Ho capito quello che volevo e quello che non volevo. La clausura del lockdown lo scorso anno non l’ho patita grazie a quell’esperienza». 
Poi è arrivato il cinema. L’hanno vista come un’intrusa?
«Sì, mi sono sentita giudicata prima di cominciare, le critiche maggiori le ho avute quando ancora non erano iniziate le riprese di Lo chiamavano Jeeg Robot. Ho creduto in me stessa quando non sapevo se ero brava ma avevo dato la mia essenza. Senza neanche avermi vista davano per scontato che non potessi essere in grado solo perché avevo fatto il Grande fratello, non davano una possibilità. Poi però il brutto anatroccolo è stato accolto dal cigno bianco. Quello è un film indipendente, se non fosse andato bene, anzi se non fosse diventato un caso non lo so dove sarei in questo momento». 
Esordio con David di Donatello. 
«Lo tengo in camera da letto». 
In Jeeg Robot è la ragazza disadattata e con problemi psichici che crede nell’invisibile, nel super eroe che la venga a salvare.
«La mia super eroina da piccola era Magica Emi, il cartone sulla bimba che di giorno è normale e viene trasformata da un animaletto magico in una cantante famosa». 
Come ricorda quel set? 
«Devo tutto a quel film. Ma un giorno, in attesa di una prova di scena con Luca Marinelli e Claudio Santamaria vado alla toilette e per alzarmi non vedo l’angolo di una finestra. Sbatto la testa, perdo un sacco di sangue, tutti pensano che fosse finto, il regista, Gabriele Mainetti mi dice che avevo dato una testata proprio come avrebbe dovuto fare di lì a poco il mio personaggio... Sono finita con i punti in ospedale e per una settimana non sono andata sul set». 
E al provino l’avevano pure fatta piangere... 
«Me l’hanno chiesto: ora devi piangere. Io non ci riuscivo. Mi hanno dato un’altra possibilità. Tornando a casa l’ho riferito a mia madre che mi ha detto: ma con tutte le bollette che abbiamo da pagare, non ti viene da piangere se te lo chiedono?». 
L’ambiente del cinema è conformista. 
«Conformista e ipocrita, ma come tanti ambienti di lavoro. Se gli attori si prendono troppo sul serio? Spesso nasce da un disagio interiore. Se fai un lavoro pubblico dove sei così esposto, vieni giudicato. Sono le regole del gioco. Tirarsela a cosa porta? Però devo aggiungere che io sono stata fortunata, mi sono sempre trovata con persone splendide che non si danno arie, da Gabriele Mainetti a Marco Giallini, Alessandro Gassman. E Carlo Verdone. Ha costruito Benedetta follia su di me, mi diceva di essere spontanea. Consigli? Lui è la personificazione dei consigli. Prima delle riprese mi diceva: oh, mi raccomando, ti voglio supersonica. C’è stata una scena molto faticosa». 
Quale?
«Quando ballo la lap dance. Avvitata su quel tubo di metallo, con i tacchi a spillo, Carlo fece durare il ciak mezz’ora. Io dopo dieci minuti ero stremata. Per allenarmi andavo in un garage con delle vere ballerine di lap dance che di sera lavoravano nei locali di via Veneto». 
Escort? 
«Ecco, uno pensa subito a situazioni border. Invece no, sono madri che fanno quel mestiere lì, fanno spettacoli. All’inizio non mi presero in simpatia, pensavano che volessi rubare loro il lavoro. Io non volevo svelare che mi serviva per un film. Quando hanno capito che non ero una rivale siamo diventate amiche». 
Ma come finisce un’attrice sconosciuta ad avere il ruolo da protagonista femminile con Verdone?
«Sono stata reclutata dal produttore, Aurelio De Laurentiis. Mi chiama e mi dice di precipitarmi in dieci minuti nel suo ufficio in pieno centro di Roma. Ero dall’altra parte della città, al supermercato di Prima Porta. Butto in aria il petto di pollo, pago 50 euro di taxi e pensando che mi offrisse il film di Natale vedo Verdone sulla porta che mi dice: vuoi essere la mia nuova protagonista?». 
L’hanno accostata ad Anna Magnani. 
«È stato Carlo a dirlo. Spero di valere una sua unghia, ma forse nemmeno quella. Pensi che io non mi rivedo mai, né in foto né in video. È difficile rivedersi sullo schermo grande, noti cose che altri non notano però tu sai che ci sono, è uno specchio. Io per esempio odio i miei capelli, sono ingestibili. Sto leggendo un libro di Frederick Dodson sulla dimensione del sé che mi sta aiutando sul lavoro». 
Quote rosa? 
«Sono ghettizzanti per noi donne, non se ne può più del politically correct, devi stare attento a ogni virgola che dici. Cominciamo a protestare per la libertà di espressione! Altra cosa è il dovere della memoria, non vorrei che ci dimenticassimo del fascismo». 
Che tipo di ragazza è stata? 
«Una ribelle con giudizio. Amavo moto e macchine da corsa. Non sono mai caduta nella tentazione della droga ma ero inquieta, volevo scappare da qualcosa che non sapevo bene nemmeno io che cosa fosse. Non ero facile, sono fobica, ipocondriaca, ho paura di quello che non conosco». 
È vero che le piacciono uomini divertenti e «sfigati»? 
Ride: «Ma non nel senso brutto del termine, mi attrae chi è chiuso, chi non è fanatico e un po’ nerd, chi non dà importanza a come si veste, chi non è egoriferito, chi non va dall’estetista a togliersi le sopracciglia, che tra l’altro fa un dolore cane». 
Non teme che al cinema le daranno sempre il ruolo della romana coatta? 
«No, nel film di Pif non lo sono e nemmeno in quello di Dario Argento, Occhiali neri, dove interpreto una non vedente che diventa amica di un bambino cinese dopo un incidente d’auto in cui il piccolo perde i genitori. I due sono inseguiti da un killer. È stata un’esperienza mistica, Dario va oltre la normale comprensione, un uomo di 80 anni che torna ad essere un bambino di 6. Ti racconta una storia che fa paurissima come se fosse una favola, ti parla di scene terrificanti con quella sua innocenza...».