Linkiesta, 30 ottobre 2021
Zuckerberg pensa solo ai soldi (maggiura!)
È verità universalmente riconosciuta che i più paranoici nei confronti della loro privacy siano poi quelli che, per avere una risposta automatica da un giochino su Facebook, cliccano «ma certo, prendi pure tutto» sotto clausole in cui s’impegnano a mettere a disposizione del giochino il patrimonio familiare fino alla settima generazione e alcuni selfie scattati durante un attacco di colite.
Che cos’è la privacy, quando in cambio un software sciatto può dirti che caratteristica precipua del Capricorno è sacrificarsi troppo per gli altri ed essere un amico leale ma guai se l’altro ti tradisce? Daremmo tutto, per uno specchio che ci deformasse in meglio, figuriamoci se non daremmo la privacy.
Mark Zuckerberg l’ha evidentemente capito meglio degli altri, giacché il genio sarà pure fantasia intuizione e tutto il resto di quella citazione ch’è patrimonio condiviso degli italiani (un po’ come il prosecco), ma è soprattutto – il genio, vi foste persi il soggetto nella mia contorta sintassi – la capacità di prosperare in un settore in cui gli altri perlopiù falliscono.
Certo, il monopolio. Ma, proprio come quando si cianciava del monopolio televisivo di Berlusconi non si poteva non pensare «sì, ma a fare la tv privata ci ha provato pure Cecchi Gori», ogni volta che qualcuno si lamenta dello strapotere di Zuckerberg io non riesco a non pensare a quando il futuro era MySpace. O Second Life. O Clubhouse, che era il futuro l’altroieri, sembrava non si potesse vivere senza, se non ascoltavi gente straparlare quale mai era lo scopo delle tue giornate, e poi ops, è stato dimenticato con una velocità che neanche le cotte estive di gioventù.
Qualche settimana fa, ve ne ricorderete, ci fu una drammatica serata in cui l’impero di Zuckerberg venne oscurato. I server facevano i capricci, e quindi tutti eravamo chiusi fuori dalle nostre esistenze virtuali: non potevamo sbirciare la vita della Ferragni su Instagram né quella di nostro cugino su Facebook; non potevamo neanche scrivere all’amante su WhatsApp. Era come essere tornati nel Novecento, con la differenza che avevamo perso l’abitudine a quella comunicazione novecentesca che è la telefonata – dai, quella cosa che si fa con la voce, come Clubhouse – ed eravamo quindi isolati dal mondo.
Tra quella mezza giornata e la testimonianza d’un’ex dipendente che ha spiegato che Facebook è il padre di Mahmood – cioè: pensa solo ai soldi – Zuckerberg ha perso in tre settimane diciannove miliardi di dollari. Se, come me, siete abbastanza vecchi da fare ancora la conversione in lire, vi esplode il cervello.
Poiché Zuckerberg è misteriosamente più odiato del capo di Twitter, Jack Dorsey (come decidiamo quali miliardari siano buoni e quali cattivi? Non sono innanzitutto miliardari, cioè gente che non direbbe all’autista di rallentare se ci vedesse a bordo strada con una gomma a terra?), e poiché Facebook è considerato l’impero del male, i più cretini tra gli intellettuali contemporanei nel pomeriggio di rottura dei server andavano su Twitter a sospirare di sollievo: ah, come si sta bene con l’impero del male non funzionante.
Ci sono casi di interessante schizofrenia: giovedì Alexandria Ocasio-Cortez, che spiega la politica alle americane mettendosi il rossetto o la crema idratante in diretta Instagram, ha twittato che Zuckerberg, invece di cambiare il nome di Facebook, dovrebbe riconoscere d’essere «un cancro per la democrazia che sta spargendo metastasi quali la sorveglianza globale e la macchina per la propaganda che fomenta i regimi autoritari e distrugge la società civile [inserite qui il vostro: ellamadonna], e tutto per il profitto».
Esattamente come accadeva ai tempi dell’antiberlusconismo, l’antizuckerberghismo pretenderebbe che MZ fosse l’unico imprenditore cui fanno schifo i profitti. Sai, ti spiegano le AOC in sessantaquattresimo, c’è stata questa devastante testimonianza in cui una ex impiegata di Facebook ha detto che pensano innanzitutto a far soldi, mica a far felice la gente. Maggiùra.
(Ogni volta mi viene in mente Gordon Gekko, e il suo «l’avidità è, in mancanza di definizioni migliori, una buona cosa»; ogni volta mi dico che devo provare a mettere quella scena di “Wall Street” su Facebook, e a vedere se i controllori della comune suscettibilità me la cancellano perché incita all’odio o altre paranoie contemporanee).
Ma, dicevo un centinaio di paragrafi fa, non sono solo Ocasio-Cortez e la sua schizofrenia, a esultare perché finalmente possiamo intrattenerci nel bar di Guerre Stellari che è Twitter invece che nello zoo di vetro che è Facebook. Il fenomeno è così comune che mi sono salvata un tweet in cui uno dei pochi intellettuali americani non ancora impazziti diceva a questi sospiratori di sollievo che gli sembravano scemi, «almeno su Facebook puoi sapere come stanno i tuoi parenti». Su Twitter, invece, puoi giusto scrivere sotto al tweet d’un politico qualche arguzia tipo «a’ stronzo, puntesclamativo», e sperare che la schermata finisca in qualche programma televisivo spiritoso, o in qualche gallery sui siti dei quotidiani.
Mark, di cui ci ricordiamo il nome perché non ha creduto volessimo fare i cantanti su MySpace o i dj su Clubhouse, ma ha capito che volevamo solo filtri per autoscatti e tramonti e cappuccini, e avere notizie dei familiari senza esser costretti a frequentarli, Mark ora ci prenderà, tutti noi miliardi (il patrimonio in umani, oltre a quello in dollari) di Facebook e Instagram e WhatsApp, e ci porterà su Meta, che dal video di presentazione è tragicamente simile a Second Life, ma lo fa lui e quindi saprà cosa venderci: cibo, transazioni bancarie, tutto quel che vogliamo. Se non lo sa lui, che ha inventato il like.
Pensa come twitterà furente Alexandria, la sera in cui cascheranno i server e non solo non potrà mettere like ma neanche ordinare la pizza. Eravamo preoccupati del monopolio della socializzazione e della messaggistica, ed è in arrivo quello di tutto il resto. Google finirà come la Meloni: unico all’opposizione.