Tuttolibri, 30 ottobre 2021
A casa di Benedetta Rossi
Per togliersi il dubbio una volta per tutte e scoprire che Benedetta Rossi è davvero come sembra, che proprio questo è il segreto di un successo senza età da 15 milioni di follower tra YouTube, Instagram e Facebook e oltre un milione di libri, bisogna arrivare ad Altidona, il paesino marchigiano immerso in frutteti e ulivi dove è cresciuta, fra il mare e i Monti Sibillini. Lei e il marito Marco da qui hanno scelto di non andarsene, nemmeno quando quell’idea di raccontare nei video le sue ricette, nata quasi per gioco, è diventata per tutti e due un impegno a tempo pienissimo. Anche se caricare i filmati è spesso complicato perché il segnale internet che arriva da un’antenna sul campanile della chiesa quando c’è brutto tempo è «ballerino». Anche se è stato difficile trovare dei collaboratori, e a un certo punto se li sono dovuti «inventare». Anche se d’estate e nei fine settimana manipoli di curiosi carichi di affetto riescono a bucare la riservatezza dei vicini e scoprono dove abita, facendo capolino per salutarla nel prato davanti alla «Vergàra», il casale sormontato dal vecchio pioppo (proprio lì sotto c’è il suo posto del cuore) dove vivono e lavorano. È qui che la cuoca Benedetta (non chiamatela chef!) registra le ricette per i suoi canali social e la trasmissione televisiva «Fatto in casa per voi», alla quinta stagione, qui che scrive i suoi libri di ricette, dal 2016 uno all’anno, sempre a fine ottobre, sempre ai vertici della classifica: è appena uscito il sesto, La nostra cucina.
Seduta sotto il portico in una tiepida giornata di sole autunnale, con il sorriso accogliente che è il suo segno distintivo e un velo di timidezza che non la abbandona mai, racconta il suo mondo. «La Vergàra nella tradizione contadina era la matrona, la moglie del figlio primogenito che gestiva la casa, dalle galline alle stoffe, e si prendeva cura dei figli di tutti. Ogni donna in una famiglia avrebbe voluto quel ruolo. Ho chiamato così questa casa dedicandola a mia nonna che, moglie del secondogenito, non lo era ma delle vergàre aveva il carattere forte ed era la regina della cucina. Le mie radici sono qui, mio marito si sarebbe anche trasferito, magari a Milano per facilitarci il lavoro, lui è più cosmopolita. Ma le mie “vecchiarelle” mi hanno trasmesso un legame troppo forte con questa comunità, fatto di odori, colori, sensazioni, di dialetto. Non parlo mai in italiano con loro perché le metterei a disagio, voglio che mi riconoscano».
Da bambina impastava le uova rubate nel pollaio con la terra del giardino per imitare nonna Blandina e zia Giulietta, fino a quando non si è potuta mettere in piedi su uno sgabello e cucinare con loro. «Sono state quelle le mie favole: poche parole e la ritualità dei gesti, ancora oggi faccio tutto con le mani e senza elettrodomestici. Guardavo e imitavo, ho imparato con gli occhi: mescolavo, friggevo pure, con enorme spavento di mia mamma. La sera ero talmente cotta che mi addormentavo senza bisogno che nessuno mi raccontasse niente».
Alla manualità (è passata dal ricamo ai saponi, dalle casette di legno alle scatole foderate con la carta regalo) ha unito il rigore imparato al liceo classico con il greco e l’ordine dei laboratori di Biologia all’università: «Mi aiuta oggi a non sbagliare nei procedimenti, nelle quantità», ma l’imprinting resta quello contadino: «Lavorare un campo rigenera la testa, è la chiave per dare una direzione al quotidiano, anche quando uno si sveglia “storto”. Insegna il sacrificio, il piegarti agli orari, al ritmo delle stagioni. Da noi si dice “orto, uomo morto” perché è come quando c’è un defunto in casa: non lo puoi lasciare mai, se una mattina non hai voglia di dare l’acqua perdi tutto».
Il gusto per la semplicità. Come una passeggiata sulla spiaggia la mattina presto insieme a Cloud, il cane di casa che non smette un attimo di saltellarci intorno. Come i maccheroni integrali con i broccoli e l’insalata dell’orto che prepara per il pranzo «in amicizia» sotto la grande veranda che hanno costruito per ospitare e sfamare la troupe televisiva nei giorni delle registrazioni. Rivela che un po’ le pesa andare al ristorante o a cena da qualcuno e sentire che tutti sono in soggezione: «A me una bruschetta aglio e olio mi fa felice. Ecco, io credo di essere così, innamorata delle piccole cose». Certo, ogni tanto anche a lei scappa la voglia di passare ore davanti ai fornelli e a Marco tocca «mangiare una piadina o tirare fuori una cartatella di affettati».
Marco di cognome fa Gentili. Lui c’è sempre, è stato determinante per dare forma e struttura alla spontaneità e alle idee di Benedetta, per la realizzazione dei video e la gestione di tutto. Ma i libri no, quelli li fa da sola. Studia un percorso, la stagionalità, il menù, le occasioni. Verifica dosi e tempi infinite volte («Io ho la misura negli occhi»), scrivendo tutto su quaderni e agende fitti di note e correzioni, aggiunge foglietti, prova di nuovo. Questa volta ha chiesto i disegni che aveva in mente a Ilaria Zanellato, per accompagnare alle sue anche ricette e storie di chi la segue. La «cernia mare e monti» scoperta da Laura in una trattoria fiorentina che propone piatti rinascimentali; gli «gnocchi ripieni alla svedese» assaggiati da Massimiliano a casa dell’amico di scuola che ha la mamma di Stoccolma; le «ciambelline glassate» di Suor Maria Consolata, una monaca clarissa che le ha «passato» i segreti del convento.
Lei le chiama tutte «le mie signore», ma in realtà sono tre generazioni di nonne, mamme e bambini. Persino la camicetta della copertina è merito loro: «Ero disperata, quando la grafica mi ha chiesto di trovarne una verde mela con i pois per la fotografia ho lanciato un appello. Sono stata sommersa di proposte di prestiti, di indicazioni su dove acquistarla on line. Poi mi ha scritto Daniela, che fa la sarta e abita a un passo da qui. Non ci conoscevamo anche se abbiamo riannodato i fili di destini che in qualche modo si erano già incrociati, una delle piccole magie di questo libro. In un giorno la camicia era pronta!». Un po’ come il vicinato di paese che ti appoggia: «Sui social mi sono resa conto di avere ricreato la stessa dimensione. È la parte più bella dell’avventura».
Nel volume la ricetta della «crescia marchigiana» viene subito prima di quella dei «falafel», il «tronchetto di polenta con il cuore morbido» accanto agli «involtini hawaiani di foglie di bietola» (omaggio all’isola dove in solitudine si sono sposati e hanno deciso di tornare ogni dieci anni). La tradizione e l’etnico, la strada sicura e la curiosità per il nuovo e «le vite degli altri» alimentata con i viaggi, una grandissima passione testimoniata dalle guide allineate sulla libreria del salotto insieme a decine di copie dei suoi libri (che confessa di regalare a chi passa di lì), ai romanzi di Sveva Casati Modignani e al Gabbiano Jonathan Livingston, il più amato. Sono tornati da poco da una «fuga» in Islanda: «Dopo due anni abbiamo finalmente ricominciato a viaggiare, il nostro modo di evadere e di tenere a mente che, nonostante il successo, resti “una cosa piccoletta”. Per me è il momento dell’abbandono, non sono più la Vergàra e lascio il comando a Marco. Mi dispiace non avere amici ovunque, per vivere un pezzetto vero di ogni posto, scoprire cosa si nasconde dietro alle finestre, come ci è successo qualche anno fa negli Stati Uniti». Nemmeno in vacanza si sono sottratti ai selfie con i turisti che li riconoscevano o hanno smesso di raccontare le loro giornate, di rispondere ai messaggi: «Quando capita si preoccupano, pensano che stiamo male, si comportano come delle vere amiche». Sono le stesse che la vedono come una figlia o una sorella e ai firmacopie (che durano ore) le sussurrano all’orecchio dolori e soddisfazioni, mentre chiedono consigli sulla torta di mele perfetta. «Mi piace fare in modo che cucinare sia un momento di gioia, oppure terapeutico come lo è stato per me in un periodo difficile della mia vita. Mi metto al loro fianco, con lo stesso spirito di quando impastavo con nonna e zia da piccola, da ragazza nell’agriturismo dei miei genitori o nei primi video in cui non parlavo e si vedevano solo le mani. Come dire: dai, lo facciamo insieme». I detrattori sono pochissimi e se su Facebook arriva qualche messaggio scortese non se ne cruccia: «Lo dico a Marco, non rispondere. Io posso rimanere delusa da qualcuno, ma la rabbia no, quella proprio non mi appartiene».
Il rapporto è stato particolarmente intenso durante i mesi del primo lockdown: «Sentivo che le persone stavano in difficoltà, le donne avevano i figli a casa da scuola ma dovevano lavorare, fare anche solo la spesa era complicato. Mi sono concentrata su come aiutarle a risolvere i problemi. La gente aveva tanto tempo e abbiamo condiviso la ricetta del “pane comodo” che ha un procedimento lungo: tutti sono impazziti. C’era bisogno di certezze e il pane è sicurezza. Se non hai nient’altro con quello te la cavi». Alle fine il video ha avuto 10 milioni di visualizzazioni, ma quando gli ingredienti erano introvabili hanno evitato le scelte facili: «Avremmo fatto il botto insegnando a fare il lievito madre o quello di birra, ma la verità è che si spreca tanta farina, ci vogliono mesi e a me il rispetto per chi si fida di te l’hanno inculcato bene in testa. Anche con gli sponsor siamo così, pochi e coerenti con le nostre scelte».
Non si è mai posta un obiettivo, non si immagina altro se non il vivere giorno per giorno «tutta ’sta cosa». Ma un progetto Benedetta e Marco ce l’hanno: «È nato per dare un senso a quello che stiamo costruendo, anche per investire i guadagni visto che il nostro stile di vita nonostante tutto non è cambiato, per darci una prospettiva di futuro». Con l’Istituto alberghiero di Sant’Elpidio a Mare hanno organizzato degli stage: «Per farci aiutare nella trasmissione tv con la “cucina di back”, un ruolo importantissimo per avere le preparazioni e il piatto finito nel momento esatto in cui servono alle riprese. Sono arrivati tre gioielli, Daniele, Lorenzo e Michele. Nei loro occhi abbiamo visto la passione e la preoccupazione per la mancanza di prospettive». È finita che dopo il diploma li hanno assunti (qualcuno lo ospitano anche). «Sono una grande spalla. Da queste parti le figure professionali che servono a noi scarseggiano, così abbiamo portato in casa quello che adesso si tende a esternalizzare. Vorremmo formare un bel gruppo che possa portare avanti tutto questo quando noi decideremo di tirare il fiato». Per loro hanno creato uno spazio pieno di luce e musica dove acquisire competenze digitali e seguire corsi di fotografia e montaggio, con una enorme cucina per sperimentare nuove ricette o ammodernare quelle già proposte.
Stanno sfornando i taralli dolci al vino. Prima di ripartire, da un vassoio pronto per essere immortalato, ne rubo uno da portare come prova. Chi ci crede se no che sono stata a casa di Benedetta?