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 2021  ottobre 30 Sabato calendario

Biografia di Adriana Cavarero raccontata da lei stessa

Il femminismo, la filosofia, il Gruppo Diotima che fonda nei primi anni ’80, Hannah Arendt come imprescindibile guida. Non sono pochi i segnali da cui riconoscere il pensiero di Adriana Cavarero. Ha da poco pubblicato un libro dal titolo benaugurante Democrazia sorgiva. “Democrazia” come fosse acqua di fonte libera da scorie e impurità. E come l’acqua, che scorre in teoria dove vuole, non ha forma se non quella che le viene dal recipiente.

Perché hai chiamato sorgiva la tua idea di democrazia?
«Mi sembra che renda bene il suo aspetto generativo più che quello oppositivo o conflittuale. Alla democrazia come campo di lotta ho preferito la democrazia che privilegia il confronto e la comprensione».
Non è un’idea troppo idealistica?
«Ha il pregio di andare alla radice del problema, come spiegò Hannah Arendt quando si rese conto che al sorgere delle città-Stato greche i cittadini vivevano senza che ci fosse una reale divisione fra governanti e governati. Nel periodo di Pericle, per breve tempo, i greci fecero l’esperienza di rappresentarsi come una “pluralità di esseri unici”».
Intendi dire una comunità di individui che non volevano né comandare né essere comandati?
«Arendt vedeva l’origine della politica come un’esperienza antitetica a qualsiasi concezione verticale o gerarchica del potere. Non va dimenticato che la sua riflessione prese forma a partire dalla catastrofe totalitaria, che affronterà nel suo libro più famoso: Origini del totalitarismo. Al conflitto politico, che implica un nemico da eliminare, preferì l’agonismo dal cui confronto emerge anche il pieno valore dell’altro».
Quando hai cominciato a occuparti della Arendt?
«Avevo 23 anni, leggevo Platone e trovavo assolutamente spiazzanti le cose che scriveva su di lui. L’originalità della sua interpretazione camminava in parallelo con il mio nascente femminismo».
Ma la Arendt non è mai stata femminista.
«È vero, ma per me, donna, era importante che ponesse al centro del suo discorso filosofico il tema della nascita».
Fu in quegli anni che fondasti il gruppo di Diotima?
«Quella comunità filosofica femminile nacque nel 1983 nell’ambito dell’università di Verona. Tra le donne che vi parteciparono, oltre a me ci furono Chiara Zamboni e Luisa Muraro. Fu un’esperienza importante, agevolata dai contributi originali che Luce Irigaray aveva apportato al pensiero delle donne».
Erano testi di rottura?
«Molto diversi dal modo consueto con cui la filosofia si rapportava alla vita. In Gilles Deleuze, che in quegli anni si leggeva molto, notavo un virtuosismo oscuro che mi disorientava. Mentre leggendo la Irigaray, perfino Speculum, il suo libro più arduo, coglievo lo sforzo di ricondurre l’analisi filosofica al corpo femminile, o meglio ancora al femminismo della differenza sessuale».
Cosa vuol dire?
«Banalmente è la differenza insuperabile tra uomo e donna. Una tale diversità si può comprendere perfettamente restituendo al corpo, in particolare a quello femminile, l’importanza simbolica che gli compete. La filosofia, da Platone in poi, ha svalutato il corpo, teorizzando soggetti astratti, universali, mai concreti. Ma come pensare la nascita, il parto, la maternità senza il corpo femminile? Fin da giovane ero attratta dalla filosofia greca e in particolare da Platone. La sua grandezza è fuori discussione ma nel leggerlo mi resi conto della sua misoginia».
Scrivesti un libro dal titolo “Nonostante Platone”, quasi a volerne prendere le distanze.
«È stato un confronto fondamentale su più piani. Quello politico, per cui sono convinta che non puoi discutere di democrazia senza riferirti alla sua riflessione critica. E poi c’è il piano filosofico speculativo dove Platone affronta la poesia e il mito, l’immagine e l’eros».
A questo proposito c’è il personaggio di Diotima, la sacerdotessa che Platone rende in qualche modo protagonista del Simposio. Immagino sia stata questa figura a ispirare il nome del gruppo.
«Diotima di Mantinea è la donna sapiente, la maestra straniera di cui Socrate sostiene di essere stato allievo.
Come si sa le donne non erano ammesse ai simposi.
Perciò quello che Diotima dirà sull’Amore potrà farlo solo indirettamente, attraverso il suo allievo. È Socrate che alla cena nella casa di Agatone parlerà riferendo ciò che ha appreso da Diotima».
Sembra una situazione tutt’altro che misogina.
«Apparentemente è così. Sembrerebbe insomma che Platone scelga una donna come maestra di verità. In realtà, esponendo la filosofia come Eros e ascesi conoscitiva, Diotima parla con le parole di Platone».
Pensa quello che Platone ha già pensato?
«Dietro la straordinaria voce femminile di Diotima c’è la voce di Socrate che è poi la voce stessa di Platone. Quello che io noto è la volontà mimetica di ridurre la lingua femminile a quella maschile. Il dialogo di Diotima è giocato sulla metafora della gravidanza e del partorire, cioè su ciò che c’è di più naturale e importante per una donna. Ma anche Socrate è, in un certo senso, un maestro che conosce l’arte maieutica, una levatrice, che aiuta i propri interlocutori a partorire le verità di cui sono gravidi».
In ultima analisi Diotima è la donna che avalla il discorso maschile. Ma perché Platone sente il bisogno di usare una voce femminile?
«Il discorso filosofico che Diotima pronuncia serve simbolicamente a ribadire il matricidio che è all’origine stessa di quella filosofia, la cui struttura appartiene all’ordine patriarcale. Un ordine che cancella la voce femminile del logos. È come se la “differenza sessuale” – in questo caso la potenza materna di cui Diotima è portatrice – fosse nuovamente negata sul piano filosofico, in quanto incapace di partorire idee proprie».
A proposito del partorire, dove sei nata?
«A Bra, in provincia di Cuneo. Poi l’adolescenza a Torino.
Un padre dirigente industriale un fratello che mi obbligò a leggere Marx in terza media. Imparai a memoria Il manifesto del Partito Comunista, ero molto politicizzata.
A 14 anni prendevo parte alle manifestazioni contro i francesi nella guerra di Algeria. Nel 1966 con la famiglia ci trasferimmo a Verona. Mi sposai giovanissima nel 1968, fu un modo per liberarmi dai vincoli familiari.
Studiai all’università, prima a Bologna e poi a Padova.
Non mi piaceva il clima violento che si respirava. Mi sembrava il frutto di un fondamentalismo le cui radici erano nella distinzione assoluta tra il bene e il male. Da tempo mi ero lasciata alle spalle le seduzione delle ideologie e lo stesso Marx, che pure avevo amato, mi sembrava che pronunciasse verità troppo grandi per me. Tornavano come antidoto ai romanzi sui quali mi ero formata».
Antidoto perché?
«Come libertà dagli schemi concettuali e dalle tesi precostituite. Da adolescente lessi L’Idiota, Anna Karenina, Guerra e pace e poi i Buddenbrook. Mi piaceva e continua a piacermi il romanzo intessuto dalla grande storia. Mentre mi annoia il romanzo postmoderno costruito su un intreccio di voci tutte uguali. Allora molto meglio Omero con la sua straordinaria polifonia vocale».
Hai letto l’Ulisse di Joyce?
«Più per dovere intellettuale che altro. Un mattone pesante, pieno di citazioni indirette, di allusioni che non consentono una lettura ingenua. Cosa che di solito la grande letteratura permette. Tolstoj lo si può leggere già a 14 anni, così Jane Austen o le sorelle Brontë. Anche Kafka può essere una lettura giovanile, ma il culto per lui mi è giunto in una fase più matura. La letteratura mi ha aiutato a comprendere meglio la condizione femminile».
Pensi a qualcosa di preciso?
«Mi vengono in mente due scrittrici, molto diverse, che hanno saputo porre al centro della loro narrazione il rapporto madre-figlia. Mi riferisco a Irène Némirovsky e a Elena Ferrante. Ma anche a una scrittrice straordinaria come Clarice Lispector».
Di solito, come mostra la psicoanalisi, è il rapporto madre-figlio ad essere determinante.
«In realtà è un rapporto sovra-rappresentato come insegna, sul piano delle immagini, la diffusione della figura della Vergine con il Bambino. La stessa psicoanalisi ha pensato il complesso di Edipo a partire dal figlio. Mentre la relazione madre-figlia è per lo più assente nell’immaginario occidentale. Se si scava nella letteratura se ne trova una rappresentazione nel mito di Demetra e Core: la madre terra che congela la sua fecondità quando la figlia le viene rapita. Sia nelle scrittrici che ho richiamato, che nel mito, la relazione madre-figlia è descritta in modo problematico, corporeo, profondo e la maternità indagata nel suo lato oscuro e carnale».
Intendi il lato oscuro della maternità?
«Esattamente questo è il tema sul quale, oltretutto, sto lavorando. Si tratta di un’espressione che ho in parte ricavato da Elena Ferrante».
Di solito il lato oscuro della maternità si riconduce a delle forme di depressione post-parto. Tu dove lo individui?
«Nel fatto che l’esperienza della maternità, intesa anche come gestazione, rimane abitualmente in ombra, come accecata dall’idea trionfale e retorica della figura materna. In realtà il corpo della madre, come corpo singolare che si scinde per generare altri corpi, si integra nel processo della vita generale, in quell’esperienza che chiamerei bios. Una parola per alcuni da cancellare».
A chi pensi?
«Penso a una certa area della filosofia contemporanea che si incentra sul concetto di biopolitica come strategia del controllo e dell’oppressione. Per cui la biologia stessa, con le sue derivazioni, viene guardata come scienza sospetta al servizio del potere e di una cosiddetta “dittatura sanitaria” che opprimerebbe la nostra libertà individuale. È una farneticazione che ha prodotto posizioni del tutto immotivate in chi ha scelto di non vaccinarsi o contrasta il green pass. Costoro ignorano che basterebbe una cardiopatia, un cancro, o un virus che ci impedisca di respirare, per capire in che misura dipendiamo dal bios ».
Anche la maternità non fa eccezione, fa parte del bios tu dici. Ma perché definirla oscura?
«Perché appartiene a un rimosso. Il lato oscuro delle donne è il deinon, cioè tutto ciò che genera terrore.
Proprio il mito greco ha narrato la potenza materna sottolineando il lato incontenibile e tremendo del suo deinon appunto. Niobe che partorisce sette figlie e sette figli e si vanta della sua prole abbondante sfidando la dea Latona, che ha partorito solo due gemelli, Apollo e Diana, scatena il deinon. Per vendetta Latona fa uccidere tutti i figli di Niobe e la trasforma in pietra».
Una pietra che, secondo la leggenda, ancora produce lacrime. Che significato attribuisci a questo mito?
«L’esuberanza della vita, ossia del bios, la maternità esplosiva di Niobe, viene mineralizzata cioè resa sterile.
Questo è il tremendo, il deinon della maternità, cioè il suo lato oscuro. Ancora oggi si ha paura di parlarne, quasi fosse un tabù».
Oggi c’è una nuova coscienza femminile che sta crescendo, qual è il tuo giudizio?
«Il femminismo della differenza sessuale da cui provengo, e nel quale ancora mi riconosco, è in contrasto con alcuni aspetti del dibattito attuale sul “genere”. Nel nome della sua fluidità si contestano le differenze del sesso biologico tra maschio e femmina. Ma la verità è che il corpo femminile può provare alcune sensazioni specifiche – le mestruazioni, la gestazione, il parto, la menopausa – che il corpo maschile non esperisce.
Negare tutto questo o cancellarlo significa buttare a mare mezzo secolo di pensiero femminista».
Ogni storia è fatta di continuità e rotture.
«Lo so bene, ma a me preoccupano alcuni segnali.
Quali?
«Sta circolando una neo-lingua che chiama le donne “corpi con vagine” e definisce le donne incinta “persone in gravidanza”. Ci vedo un tentativo di spossessamento del corpo femminile e della sua potenza generativa.
Come se nascere fosse un fatto irrilevante, come se tutti noi non si esca dall’utero materno».