Cosa l’ha colpita della storia?
«All’inizio mi ha incuriosito la vita precaria e misteriosa di Finch. Poi ci si rende conto che è l’unico tizio rimasto a St. Louis, la sua lotta quotidiana è tra vita e morte, sopravvivenza e perdita. Sembra un’ambientazione fantascientifica familiare, ma appena il cane entra in scena capisci che è qualcosa di diverso. Manca il cinismo di questo tipo di film, non ci sono zombie assassini, motociclisti sanguinari, guerrieri rinnegati che violentano tutte le donne e mangiano tutti i bambini. Questa è la storia di un uomo a cui non importa di null’altro al mondo se non del suo cane. Da attore molto egoista, il mio è l’unico personaggio del film, a parte il cane e il robot. Favoloso, no?».
Cos’ha dato di suo a Finch?
«Nulla. In comune abbiamo solo i capelli grigi e le ossa stanche. Finch è più lineare, sa quali sono i suoi bisogni e con metodo compie ciò che è necessario, dalla mappa dei luoghi dove cerca il cibo a come assemblare i pezzi. Costruisce il suo destino senza contare sulla fortuna o il caso. Il bello di fare l’attore è interpretare chi è più intelligente e figo di te».
I momenti più belli sul set?
«Quelli condivisi con il cane, Seamus. A volte si sedeva sulle mie ginocchia e io gli strofinavo la pancia e gli afferravo il muso e tiravo, lo massaggiavo dietro le orecchie, gli parlavo. Giuro che quel cane mi ha guardato e ha detto: “Non sei così male”. Mi sono sentito come un milione di dollari.
Tutti i film sono finti, nessuno è davvero sposato, nessuno litiga. Ma tra e e Seamus è nato un rapporto vero».
Se potesse creare un robot, cosa vorrebbe che facesse per lei?
«Strofinare le mie spalle, diventare un esperto di riflessologia plantare, farmi il panino al burro di arachidi perfetto, cambiare canale. Quel tipo di assistente che sa esattamente quanto latte caldo e Ovomaltina prendo la mattina e sa pulire i miei occhiali. Jeff non esiste per il piacere di Finch ma per il futuro del cane. Non creerei un robot per portare a spasso il mio cane, mi piace il tempo che passo con lui, ma potrei creare un robot per ripulirne le feci».
C’è un legame con “Cast away”?
«Per fare Cast away ci sono voluti sei anni, una discussione costante con Bob Zemeckis e lo sceneggiatore Bill Broyles. Per me quel film parla della cosa migliore che sia mai capitata a quell’uomo.
Ha avuto un incidente aereo e ha vissuto su un’isola per quattro anni. Da lì è nata una vita che non avrebbe mai immaginato di avere.
Mi interessa capire quanto i comportamenti e i protocolli che creiamo possono salvarci da noi stessi. C’è un momento in Cast away in cui il personaggio cammina per l’isola cercando cibo che si riflette nelle scene di Finch con la tuta pressurizzata a caccia di lattine di tonno avanzato. C’è un terreno comune, ma il viaggio è diverso.
Finch ha un tempo limitato. Il suo cane significa responsabilità, vuole vivere il più a lungo possibile per fare in modo che quel cane sopravviva».
Finch si sforza di far capire al
robot Jeff la bellezza della vita.
«Nel film i robot distruggono le persone che li hanno creati, da Frankenstein a Hal 9000. Jeff è un adolescente a cui Finch vuole trasmettere il senso di cosa è giusto e sbagliato, il valore della cura e dell’empatia, perché continui ad occuparsi del suo cane. Ma questa è in qualche modo una responsabilità di tutti noi?
Abbiamo un impatto sui nostri amici, sulla famiglia e sui figli.
Dobbiamo lasciare loro un’eredità di valori umanisti ed è quello che vuole fare Finch. Che sopravvive attraverso la sua umanità ed è proprio lì, anche nell’ultima inquadratura del film».
Le piacerebbe un prequel?
«Non ci pensavo, ma mi piacerebbe. Il problema è che sarei troppo vecchio per interpretarlo, ci vorrebbe un ragazzo là fuori, un po’ più in forma e giovane, ma non si sa mai».
Quali album porterebbe nella solitudine a farle compagnia?
«Uno di Julie London, cantante da locale degli anni 60, faceva cover, una racconta dei successi di Chuck Berry, qualcosa di Mr. Bruce Springsteen. E uno dei dischi di mia moglie, Rita Wilson, forse Bigger Picture ».
La fine della terra nel film è causata dal buco dell’ozono.
«È una delle grandi preoccupazioni. Ho fatto un film in Australia, lì c’è il buco e ci sono tantissime cliniche per la pelle, il cancro della pelle è una grande preoccupazione. Lo scenario del film è che tutti hanno finto che non esistesse, cercato di nascondersi, accumulando scorte. Ma l’umanità è collassata in modo orribile. Finch si chiede questo: cosa faremo gli uni per gli altri quando arriveranno l’uragano, o le inondazioni, o l’ozono sarà così scarso che il sole sarà in grado di cuocere un hot dog?».
Finch è stato concepito prima della pandemia, dopo quasi due anni di isolamento il pubblico come reagirà alla sua solitudine?
«Quando siamo stati isolati per il Covid 19 il resto del mondo era là fuori, avevamo un desiderio molto reale di tornare in questi luoghi e darci ai grandi piaceri comuni, compagnia, negozi e caffetterie, per stare con gli amici da cui eravamo divisi da tempo. Finch non ha quel lusso perché è solo da anni, da quando tutta la società è implosa. Sì, ha un cane e si costruisce un amico con cui parlare, può giocarci, ma non ha nessuna speranza di sfuggire dalla solitudine».
Lei e sua moglie siete stati contagiati dal Covid, come è
cambiata la vostra vita?
«Abbiamo toccato con mano il fatto che, da personaggi pubblici, abbiamo grandi responsabilità.
Quando abbiamo scoperto che eravamo positivi abbiamo avuto paura, io sono diabetico, mia moglie ha avuto il cancro, siamo categorie a rischio. Ma ci hanno curato e in poco tempo eravamo fuori pericolo. Abbiamo fatto una campagna per il rispetto delle procedure di sicurezza e crediamo nei vaccini».
Il rapporto con Denzel Washington in “Philadelphia”, con un pallone sull’isola deserta, con un cane sulla terra distrutta. Il suo prossimo compagno di viaggio?
«Mi è mancata la gioia di interagire con altre persone in un grande film, che ti dà una qualità migliore di vita ed è un modo più semplice di restare sani, condividendo emozioni e altre storie. Vorrei un film corale con otto protagonisti, essere solo un anello della catena invece di inventare assolutamente tutto ogni singolo giorno».
La sua carriera è iniziata con la commedia e in questo film, a tratti angosciante, si ride anche.
«Il mio primo lavoro di attore è stato in un teatro di repertorio a rotazione, una scuola di varietà in cui non potevi scegliere. Nel 1977 al Great Lakes Shakespeare Festival abbiamo fatto sei spettacoli all’anno. Una commedia, una tragedia, una storia d’epoca e una contemporanea e tu dovevi essere sempre all’altezza del testo e delle aspettative. Che tu faccia teatro, cinema o tv, il lavoro è il testo. Non ho mai pensato “è ora di fare una commedia, o una cosa seria o qualcosa di storico”. In ogni commedia che ho fatto ci sono momenti seri e viceversa. Così è la vita. Il piacere è ogni volta nel fatto che ricominci. Appena dici sì a un film niente di quel che hai fatto prima ha importanza».
Come sceglie un film oggi?
«Sono vecchio, è difficile a volte alzarsi dal letto alle 5 e un quarto di mattina. Ma non puoi farne a meno, perché questo è il lavoro più bello del mondo. Qualunque sia il film, deve riflettere ciò che penso, il mio senso della logica, un comportamento autentico. Ogni film che ho visto e amato mi ha fatto chiedere, che si trattasse del Padrino o di Halloween, cosa farei io in quella circostanza? Sono questi i film che restano».