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 2021  ottobre 30 Sabato calendario

La saga dei fratelli Panini

Erano quattro come i moschettieri del re, erano quattro come i calciatori dentro la bustina. Giuseppe, Benito, Umberto, Franco. Nessun doppione, nessuno mancava, “celo” e basta. Erano, e sempre saranno, i Panini di Modena. La loro è una magnifica storia italiana di un’Italia generosa e ingenua, affamata e sognatrice. L’ha raccontata Luigi Garlando, una di quelle penne che scrivono su più tavoli perché cercano le persone, siano centravanti o fanti ( il capostipite della saga, Antonio, classe 1897, a Caporetto c’era). Così l’epopea dei Panini e della Panini è diventata L’album dei sogni (Mondadori) e in prima pagina hanno scritto “romanzo”, perché non s’intenda male. Si potrebbe aggiungere “storico”. Quasi un secolo rincorrendo un senso, oltre che l’introvabile Pizzaballa.
Eccoli, dunque, “i leoni dell’Emilia”, una saga che comincia con un pugno di fagioli e un finocchio da dividersi in otto perché Antonio muore giovane e la moglie Olga, la figlia del casaro, figura centrale del libro, dovrà tirare su da sola quattro maschi e quattro femmine. Si alza la polvere della campagna quando sfreccia una moto col sidecar, e sembra Amarcord, poi passa la littorina. I Panini lavorano come matti, crescono, comprano l’edicola di corso Duomo a Modena e da lì tutto comincia, mentre la campana della Ghirlandina scandisce le ore liete e le ore cupe. Si vendono giornali e riviste, ma c’è nell’aria una fascinazione strana. Benito, il più fragile dei quattro, inventa le buste a sorpresa ed è come un baccello, il primo germoglio che porterà Giuseppe Panini detto Il Vecio (solo perché è il primogenito, un ragazzo invece) a scommettere sulle figurine, passando dal fallimento della collezione sui fiori all’invenduto dei primi calciatori. Però l’idea era perfetta, andava solo elaborata, attesa.
Intanto i quattro moschettieri costruiscono con le loro mani un’edicola più grande, mentre Perugina e Buitoni infilano figurine nei prodotti per invogliare il cliente: c’è quel mistero di introvabilità, la mitica numero 20 del Feroce Saladino che mezza Italia rincorre invano. Ma ormai è il calcio a dare densità alle “domeniche della brava gente”, si gioca la schedina, si applaudono i primi giocatori stranieri: i Panini sanno che i bambini aspettano solo di aprire le bustine per vedere chi troveranno, è la loro caccia al tesoro di carta. Per dieci lire si comprano tre figurine (nell’epoca classica diventeranno quattro) e un palloncino, con 100 “Valide” si può richiedere un pallone, ormai la macchina è partita. Però bisogna imbustare sempre di più per tenere il ritmo della domanda di prodotto, ormai forsennata: prima lo fa tutta la famiglia Panini e poi tutta Modena, compresi i carcerati, le monache e gli ospiti delle case di riposo. E bisogna evitare che due “fifi” uguali finiscano nella stessa bustina: prima che Umberto, il geniaccio della famiglia, inventi la Fifimatic, arnese degno di Archimede, l’operazione verrà svolta a colpi di badile e manovella, la zangola del burro, perché questa è anche la storia di un’Italia contadina.
La bravura di Luigi Garlando, autore capace di farsi leggere da milioni di bambini e non solo da chi sfoglia la Gazzetta dello Sport, è avere mescolato i piani narrativi di cronaca e invenzione, col risultato che a volte la cronaca sembra fantasia e invece è vera, e la fantasia così credibile da sembrarlo. Accanto al sogno di completare l’album ce n’è un altro, imbevuto dell’energia del dopoguerra e dell’ottimismo del boom: costruire il futuro come una casa, impastando e cuocendo da sé i mattoni. Per questo, i quattro Panini vogliono fare tutto da soli: comprano le fotografie dei calciatori a Milano, da Vito Liverani, fanno il fotolito (i cliché) a Parma, stampano a Modena e imbustano a Bologna. Non tarderanno a costruirsi la loro fabbrica, i capannoni, le rotative, inventando figurine a chilometro zero che invaderanno l’Italia e poi l’Europa in un volo di cariandoli, prima incollati con la coccoina che sa di mandorla, poi autoadesivi. Andrà avanti così fino al 1988, quando la Panini sarà venduta all’editore Robert Maxwell per 150 miliardi di lire. Ormai era tempo, il tempo che passa.
Sembrerebbe un grande racconto industriale, invece è puro artigianato umano. Sono molto belle le pagine sui fratelli Panini a caccia di distributori e agenti, a volte persone incontrate per caso, magari in vacanza sotto l’ombrellone, oppure arrivate chissà come da Svizzera e Germania. Il segreto sono sempre le persone, e mai cambiare stile neppure dopo il successo, i milioni e i miliardi, come effettivamente seppero fare i fantastici quattro.
Sembra di vederli ancora, quei bambini che fanno scorrere il pennellino sul dorso di carta dei loro eroi, li vediamo perché quelli siamo noi. Più tardi appiccicheranno le “celline” (non potete non sapere cosa fossero, astenersi perditempo) e giocheranno a prendersele, tirandole contro il muretto o sul marciapiede, perché quella era l’Italia dei piccoli che giocavano in strada dalla merenda alla cena. Non le sentite, le voci delle mamme che li chiamano, che ci chiamano dai balconi?
Tecnica e sentimento: questa è la trama del romanzo. Suonano fisarmoniche nella bassa dove saltano i tappi di lambrusco, e intanto i fratelli Panini infilano nelle bustine anche Pinocchio, i Puffi e Sandokan, ormai non ha più confini il sogno, anche se nelle case sono già entrati i primi videogiochi. Però la carta non muore, chi lo pensa non sa niente. Muoiono semmai loro, uno dopo l’altro come nel commiato di un bel film, i moschettieri che nel frattempo si erano fatti vecchi. Il primo ad andarsene è Benito, e i fratelli non vogliono un quarto che porti la bara. Faranno tutto da soli, come sempre.