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 2021  ottobre 30 Sabato calendario

Sosa Villada racconta il mondo transgender

Io, noi, loro. Camila Sosa Villada scrive al singolare e al plurale tutte le storie di questa storia, che è la sua, e non soltanto si compone di quelle degli altri e delle altre, ma le rende anche possibili. Non è la prima autrice che, in questi anni, declina in modo così disinvolto la voce narrante: è un uso che si deve a questo tempo di ridefinizione e scoperta delle identità e anche, naturalmente, alla loro rappresentazione. È un uso che si deve anche al ruolo che, in questo processo, ha l’autofiction, che certamente non è un inedito ma ha ora il compito di avvicinare le alterità e affratellarle senza assorbirle. In questo, Le cattive di Sosa Villada riesce con successo: non dà mai del tu al lettore, non gli permette mai di dire «anche io». L’emozione arriva da qui, dal sentirsi vicini e separati da tutti gli abitanti di queste pagine, dall’impossibilità di immedesimarsi in loro e trovare ugualmente, nella radicalità di questa differenza, una connessione. È quello che fece Tondelli in Altri libertini: raccontò gli irraccontabili e affidò a chi leggeva il compito di riconoscerli e di farli esistere.
Nella sua bio su Instagram, Sosa Villada ha scritto: « Mi nombre es legión porqué somos mucho », il mio nome è legione perché siamo tanti, la frase che, nel Vangelo secondo Marco, un indemoniato dice a Gesù, quando gli va incontro supplicandolo di non cacciare gli spiriti impuri che lo abitano. «Mandaci da quei porci», dicono quegli spiriti, tramite l’indemoniato, a Gesù, che acconsente, «e gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e si precipitarono giù dalla rupe nel mare».
Le cattive non sono spiriti impuri, ma persone: una variopinta, poetica, talvolta cruenta banda di transessuali, una famiglia d’elezione e necessità. Quasi tutte si prostituiscono, lavorano in un parco di Cordoba e hanno appena vent’anni, a parte la matriarca, Zia Encarna, che ha un’età leggendaria, incalcolabile. Sono colorate, magiche, «gatte incalzate dalle circostanze », facili al riso e al pianto, sono mendicanti d’amore – «quel mostro spaventoso: tutto si riduceva, in fondo, alla fame d’amore» – e, per essere donne, hanno accettato di prostituirsi, di venire violentate, d’essere merce di scambio e continuamente ricattabili, di vivere ai margini delle città e del linguaggio, di non avere che scarti, ripieghi, cunicoli. Diversamente dagli spiriti impuri dell’indemoniato, non si appropriano né possiedono nessuno: si lasciano possedere. Quando la voce narrante, in uno dei momenti in cui dice «io», racconta di essere stata violentata da tre poliziotti e di aver perso così la verginità, dice: «Da quel giorno il mio corpo assunse un altro valore, smise di essere importante. Una cattedrale di nulla». Chi parla del processo di transizione schiva spesso la problematicità, forse irrisolvibile, di un punto: quanto conta il corpo per chi ne ha uno nel quale non riesce a riconoscersi? È senz’altro un paradosso che, chi sente di avere una natura difforme dal proprio corpo, è proprio a quel corpo che sacrifica tutto ed è un paradosso che, noi conformi, riduciamo a una contraddizione. Ecco una delle cose che questo libro fa: metterci in imbarazzo davanti alle nostre semplificazioni, mostrandoci quanto sono corte e spietate.
Le cattive non sono cattive ma, come vuole l’etimologia, prigioniere. Le incatena un’ambizione: calzare l’identità che sentono di avere, da sempre o da un certo punto in poi. «Io non potevo essere un uomo a questo mondo», scrive Sosa Villada dopo aver fatto descrivere alla sua protagonista le violenze di suo padre. Ed ecco l’altro punto su cui questo lavoro ci interroga: se l’identità è una tutela, come possiamo pensare di stabilirne una che sia sempre valida? Non è, forse, nel perenne transito che esiste la possibilità di dire «eccomi» ? Qui, forse, s’incontrano le cattive e le buone, i binari e i non binari, i coincidenti e non coincidenti, oltre che nel dovere di affermare questa garanzia.
Le città hanno sempre un parco, un quartiere, uno spazio di ipogei dove cattive, cattivi e tutti gli altri libertini vivono una vita parallela, costruiscono un mondo soffice e mostruoso, anarchico e ligio: accostarglisi sembra sempre pericoloso. Ci si immagina che sia un regno mostruoso e folle come il regno di Pinguino nelle fogne di Gotham City. E invece è un regno caldo e potente, luminoso – «senza le prostitute, questo mondo affonderebbe nella cupezza dell’universo» – e accogliente. Entrarci è uno shock culturale, come quando si mette piede nella Città Proibita e l’eurocentrismo decade e ci si rende conto che il proprio mondo non è che una parte e che popoli interi hanno vissuto e costruito civiltà prescindendone completamente. E ci si sente minuscoli e terribilmente soli: si notano tutte le esclusioni che sostanziano il nostro «noi».