Robinson, 30 ottobre 2021
Come sono felici le zanzare nel metrò
«Un topo si insinuò con lentezza fra la vegetazione, strascicando il suo viscido ventre sulla riva, mentre stavo pescando nel canale scuro, una sera d’inverno dietro il gasometro». È un passo de La terra desolata di Thomas S. Eliot, il poema che ha fatto della contaminazione urbana lo specchio del degrado della civiltà. E del roditore che striscia nel molle putridume di un canale di scolo il simbolo di una catastrofe ambientale.
Ma se guardiamo la stessa scena con gli occhi di Menno Schilthuizen, al posto della desolazione suburbana vedremo affiorare, come in sovraimpressione, un’altra vita che si fa strada negli interstizi della metropoli. Non una inesorabile involuzione ma una diversa evoluzione.
In realtà siamo abituati da sempre ad ambientare la scena darwiniana nella natura selvaggia, dove le specie, indisturbate dagli umani, evolverebbero in una slow motion da documentario naturalistico. Su uno sfondo animale e vegetale degno dei due Rousseau, sia il filosofo sia il pittore. Nulla di più falso dice il biologo ed ecologista olandese, nonché professore di Biodiversità all’Università di Leida, che dedica alla demolizione di questo consolidato luogo comune il suo ultimo libro, Darwin va in città, appena uscito da Raffaello Cortina.
Insomma, la natura non è un agriturismo del bios. È una lotta per la vita che si combatte su tutti i campi. Comprese le stazioni della metropolitana. O i tombini fumanti di Manhattan, l’acropoli del sistema mondo. Dove a dispetto di un’urbanitas stratificata come una geologia, resta qualcosa di Mannahatta, l’isola dalle molte colline, come si chiamava nella lingua degli Algonchini, i primi abitatori del posto. Che vivevano, a loro insaputa, fra Tribeca e l’Upper East Side, e andavano a caccia tra Harlem e Nolita. Quando fu scoperta nel 1609, l’isola di Sex and City era un eden. C’erano più comunità ecologiche che a Yellowstone, regno dell’orso Yogi. E più specie vegetali di Yosemite Park. Insomma, un intrico multiforme e multicolore di biodiversità.
Animali, arboree, floreali. Che adesso sembrano scomparse. Ma in realtà sono trasmutate. Sono diventate un intrico parossistico di biodiversità culturali, linguistiche, religiose, etniche. Dove risuonano ottocento lingue diverse che fanno un effetto foresta. Ma di vetro e cemento. I ruscelli e le paludi formate nei millenni dal lavoro dei castori, straordinari bioingegneri, adesso si chiamano 125th Street e Greenwich Street e la palude formata dalla confluenza dei ruscelli è Times Square, cioè il punto di confluenza del villaggio globale. I castori sono spariti ma al loro posto è subentrato il più potente ingegnere ecosistemico della natura, cioè Sapiens. Che popola Manahattan come le formiche popolano un formicaio, dopo aver progettato da buon ingegnere, nicchie per animali e piante con cui divide l’habitat.
Ormai la giungla d’asfalto ha smesso di essere una metafora per diventare realtà. E la natura va a vivere in città. Nel prossimo futuro la maggior parte del pianeta sarà urbanizzata. Intere aree del globo si trasformeranno in altrettante Gotham City senza più differenza tra centro e periferia.
Risultato, un numero maggiore di specie si ritaglia nuove nicchie ecologiche nelle pieghe della metropoli. Come dire che l’evoluzione trasloca e si adatta ad ambienti sempre più condivisi con altre specie migranti. I piccioni che sovrappopolano le nostre città, per esempio, stanno sviluppando rispetto ai loro cugini di campagna, un piumaggio più resistente alle tossine. Le popolazioni di zanzare che si sono stabilite nelle gallerie della metro londinese fanno una vita molto diversa dalle loro consorelle di superficie. Queste si saziano di sangue e poi si danno all’amore di gruppo e depongono le uova stagionalmente. Quelle del subway, invece, copulano prima del pasto quotidiano a base di sangue di pendolari e lo fanno in tutte le stagioni perché laggiù non fa mai freddo. In effetti i geni che regolano l’orologio biologico delle specie si riprogrammano per adattarsi a nuovi contesti. Proprio come fanno i migranti quando si integrano nel posto che li accoglie.
Come nel Kalleng Riverside Park, un fazzoletto di terra verdeggiante tra i grattacieli di Singapore, dove i merli indiani e le cornacchie vivono alla grande con i rifiuti dei picnic umani. Mentre il tappeto di erbe d’acqua dolce che nutre tartarughe e chiocciole, cresce su mattoni e bottiglie di plastica. È un’acqua talmente antropizzata che un litro contiene 1,2 mg di caffeina, più o meno l’equivalente di un cucchiaio di caffè. Non è detto che tutte le specie del Riverside riescano a sopravvivere ma sicuramente saranno tutte molto nervose. Se poi si aggiunge che nessuna di loro è autoctona ma vengono tutte da lontano, si ha l’idea di un futuro dove la migrazione diventerà un grande vortice che trascina con sé umani e non umani. In un rimescolamento di forme di vita dove crollano le frontiere tra natura e cultura. E dove tra apocalisse e utopia c’è solo una fermata di metro.