la Repubblica, 30 ottobre 2021
Ritratto di Luigi Einaudi a 60 anni dalla morte
Sessant’anni fa, dovendo raggiungere a Roma la clinica in cui sarebbe morto il 30 ottobre, Luigi Einaudi ritardò di un giorno la partenza da Dogliani. Come ricordò Enrico Emanuelli, il senatore desiderava «prima mettere a posto alcuni libri: e questi libri, che formano un fondo selezionato con acume e raccolto con pazienza, nel loro ordine rispecchiano la più grande passione del padrone di casa». Un’autolettiga lo condusse alla stazione di Monchiero (il villaggio del Dolcetto non volle la ferrovia, temendo che il vapore danneggiasse l’uva). Ai suoi fattori, ai Bersia, annunciò a modo suo, pudicamente, stemperando la commozione nella ritrosia, il prossimo addio: «Parto e d’ora in avanti fate voi, regolatevi per il meglio».
In treno Einaudi avrà ripensato a un altro viaggio dal paese langarolo a Roma. Nel maggio del 1948, quando fu eletto Capo dello Stato. Il 12 concluse il discorso alle Camere esclamando: «Viva l’Italia!». Sicuramente riandando con il pensiero alla sua terra piemontese, fra Carrù, dove nacque nel 1874, e Dogliani, dove si trasferì con la madre dopo la morte del padre esattore. Ancora mezzo secolo prima – ebbe occasione di spiegare – i suoi antenati contadini annunciavano «Andiamo in Piemonte!», nell’atto «di attraversare il Tanaro per recarsi a uno dei mercati o delle fiere che ogni giorno dell’anno si celebrano nell’uno o nell’altro dei borghi posti sull’altipiano fra Mondovì, Cuneo, Fossano e Saluzzo».
Da allora, dal primo Novecento, non solo il concetto di Piemonte, lentamente formatosi nel tempo, era stato recepito. «Come non ho più sentito dai contadini dei miei paesi dire “andiamo in Piemonte” – annoterà Einaudi sul Ponte di Piero Calamandrei – così da nessuno ho sentito parlare di “andare in Italia” per recarsi in qualche città o borgo al disotto della linea gotica».
«Viva l’Italia!». Che, attraversato il Ventennio, dal Ventennio e dalla Seconda guerra mondiale uscita stravolta, ritrovava la via della democrazia. Il Fascismo come “antirisorgimento”, secondo la definizione di Salvatorelli, contrastato da Einaudi anche sulla scia dei suoi giovanili ricordi risorgimentali. A cominciare dal parroco, oriundo delle montagne dov’era nato il suo genitore, già stenografo al senato piemontese, memore della «voce stridula e in falsetto» di Cavour, «il più grande uomo di Stato del secolo».
Ruota intorno all’eredità smarrita o sdilinquita di Cavour l’articolo di Luigi Einaudi “Piemonte liberale” per il Corriere della Sera il 22 ottobre 1922, alla vigilia della marcia su Roma. Là dove si individua nel «viver quieto e tranquillo» il tarlo della pianta liberale piemontese. Divenuta un mito «la dottrina liberale che fu di Cavour», il liberalismo ridotto «ad una norma di condotta puramente negativa: quella di non andar negli eccessi, non prete e non comunista espropriatore, niente di accentuato, di preciso, di tagliente. Giusto nesso in tutto; prendere il buono da tutte le teorie, senza respingerne nessuna», così umiliandole. Fra le righe il j’accuse a Giolitti. Non temendo di dare l’imprimatur a una eterodossa liaison: «I pochi giovani innamorati del liberalismo» – i giovani gobettiani di La Rivoluzione Liberale — «per disperazione dell’ambiente sordo in cui vivono sono ridotti a fare all’amore con i comunisti dell’Ordine Nuovo».
Le Langhe dove giorno dopo giorno la resistenza alla malora forgiava schiene diritte. Giustificate dal dovere compiuto, prima che dal risultato eventualmente raggiunto. Ecco l’humus delle einaudiane Prediche inutili, «conoscere per deliberare», innanzitutto, da Einaudi ostinatamente offerte. «Polvere che il vento disperse», così osservava nel 1955 licenziando la prima edizione, «Talché a me rimase l’impressione fosse inutile predicare. Purtroppo, a chi ha nel sangue l’imperativo allo scrivere, non giova essere persuasi dell’inutilità dell’opera propria...».
Scrivere come coltivare, potare, innaffiare, innestare, i verbi che i contadini del Presidente – la tenuta di San Giacomo acquistata nel 1897, 251,1 giornate di terra lasciate in eredità – non meno ostinatamente declinavano stagione dopo stagione, fra sole e grandine.
Un Signore sul Colle (Signore, il titolo prediletto da Einaudi, «il più bello – si espresse – fra quanti appellativi possiede la lingua italiana»). Un monarchico nella fu residenza regale. Non a caso. Lui che non dimenticava quanto «i principi di casa Savoia ed i popoli piemontesi avessero combattuto e sofferto e armeggiato per assicurare a se stessi il confine naturale delle Alpi», preludio delle guerre d’indipendenza e dell’Unità d’Italia.
Lui che venne salutato da Valdo Fusi, il testimone di Fiori rossi al Martinetto (il poligono di tiro torinese dove furono fucilati i membri del Cln militare piemontese), come “l’ultimo Re d’Italia”. Lui che, richiesto se avrebbe accettato di dirigere un giornale (prima del Corriere fu a La Stampa, vi entrò come redattore nel 1896, l’anno successivo alla laurea, vi pubblicò le cronache raccolte da Gobetti sotto il titolo Le lotte del lavoro), rispose affermativamente, a una condizione: di vedersi riconosciuti i poteri di un monarca assoluto (confessò a Spadolini: «Il direttore di un grande quotidiano d’informazione non può essere il presidente di una Repubblica parlamentare, è un monarca »). Lui che una volta, nella sede dello Struzzo, in via Biancamano, così si rivolse a Eugenio Montale: «Non m’intendo di poesia. Ma so chi è Lei. E me ne compiaccio». Non era forse un parlare da Re?