Lo dice al telefono da Dubai.
Signor Ceci, cos’è questa storia della statua?
«Il mio dono alla città e alla memoria della persona più importante della mia vita, un semplice grazie a chi adesso non c’è più. Una statua in bronzo dorato, a grandezza naturale, alta un metro e 67 come il mio fraterno compagno ritratto ai tempi del mondiale messicano. La mano sinistra e il piede sinistro sono stati riprodotti in 3D usando il calco che io stesso avevo fatto a Diego, le impronte le ho prese io, sissignori».
Un calco? In che senso?
«Io e lui sapevamo che un giorno il suo piede sinistro sarebbe stato venerato. Quando nascerà il Museo Maradona, piede e mano saranno riprodotti in oro. Ma anche chi toccherà il piede della statua, sfiorerà in qualche modo il piede vero di Maradona come se fosse, diciamo, quello di un santo».
Un santo? Non stiamo un po’ esagerando?
«Diego diceva: io sono napoletano dal giorno in cui sono arrivato qui. E sulla statua ci sarà scritto proprio questo: “Anch’io sono napoletano”.
La esporremo allo stadio Diego Armando Maradona il 28 novembre, prima di Napoli-Lazio. La metteremo a centrocampo, poi sarà sistemata negli spogliatoi, nel punto dove gli arbitri incontrano i giocatori, così potrà essere vista in tivù prima di ogni partita. Pago tutto io, saranno più o meno 80 mila euro e sono onorato di farlo».
Chi era per lei Maradona?
«Un amico, un fratello, un sogno.
Infatti lo sogno ancora, almeno due volte a settimana. Sogno di essere a Napoli, di sporgermi dal balcone e vedere Diego lì sotto. Oppure stiamo per andare a un evento e lui mi ripete “Tanito, non ho voglia, andiamoci domani”. Ci siamo drogati insieme, insieme abbiamo vissuto a Cuba e Dubai, io abitavo al piano di sotto e tenevo sempre un walkie-talkie acceso, così lui poteva chiamarmi nel cuore della notte per un panino, “Tanito portami un sandwichito”, o per dirmi che si era spenta la tivù e se potevo riaccenderla. Purtroppo non riusciva mai a dormire. Di me diceva: toccatemi tutto, non Stefano perché per me il Tano è intoccabile.
Lo ha ripetuto tante di quelle volte nelle interviste in tivù».
Gli eredi di Maradona la accusano di non essere il vero depositario di tutti quei diritti commerciali.
«Miserabili. Eppure continuo a mandare bonifici pari al 50 per cento di ogni affare concluso, come voleva Diego. Lui era lì sul letto, morto e ancora caldo, e c’era chi gli svuotava il frigorifero. Si sono fregati pure le cose da mangiare».
L’avvocato Matias Morla sostiene di essere lui il
rappresentante di Diego sul mercato internazionale, e non lei.
«Morla registrò cinque marchi senza neppure dirlo a Maradona, una carognata, ma non l’omino che corre, non “D10S”, quelli sono miei! In otto anni ho fatto guadagnare quasi trenta milioni di dollari a Diego, e ora la metà spetta ai figli legittimi, poi arriveranno pure quelli naturali. Ho chiuso io i contratti per i videogiochi, per le slot machines, tra poco lanceremo una nuova linea di abbigliamento.
Ho portato io Maradona in Rai da Fazio, alla Fifa, al San Carlo di Napoli, a Londra, in Corea, in Marocco, ai Mondiali del 2014 e del 2018. Trentasette eventi abbiamo fatto, noi due. E dov’erano, i presunti amici? A Cuba, siccome non c’erano soldi non si vedevano neppure i parenti. Ma lui non ha smesso di pagarli, e non bastava mai».
Si parla di 200 o 300 milioni di dollari di eredità.
«Ma no, che fesseria. Nel 2012, quando siamo andati a Dubai, Diego aveva 8 milioni di dollari sul conto.
Grazie a me ne ha guadagnati altri 26 milioni e 600 mila. Almeno 10 sono andati alla famiglia, quasi 6 negli ultimi 5 anni. Penso che adesso ci siano sui vari conti una ventina di milioni di dollari, non di più. E una quindicina sono spariti perché qualcuno li ha fatti sparire.
Non esistono casseforti segrete. I cimeli importanti se li era già presi l’ex moglie Claudia, che li ha venduti: esistono due cause in tribunale, per questo».
Ormai è quasi passato un anno.
Cosa le manca di più di Maradona?
«La quotidianità: io ero innamorato pazzo di Diego. Ho chiamato mia figlia Mara Dona per avere sempre Maradona in casa con me. Al mattino guardo ancora lo smartphone appena mi sveglio, è un riflesso condizionato, come se lì dentro potesse esserci un suo messaggio. Mi manca la voce, così stanca alla fine. Gli hanno fatto cambiare quattro case soltanto nell’ultimo anno, le signore figlie, per poi mandarlo a morire nella jungla. A Napoli c’è un proverbio che dice: il morto lo piangono tutti, ma nessuno se lo vuole portare.
Quando lo vidi per l’ultima volta, Diego era nel ritiro del Gimnasia, la squadra che allenava. Aveva giocato a pallone, ma non c’era acqua calda per lavarsi: lo aiutammo io e Christian Jorgensen, il suo assistente. Scaldammo l’acqua sul gas della cucina, non c’era nemmeno lo shampoo. Ecco come viveva Diego. Quando sento dire “ma come è morto?”, io rispondo: non è morto così, è vissuto così, solo come un cane. Ha avuto tutto e non ha avuto niente».