Robinson, 30 ottobre 2021
Il processo del Bataclan raccontato da Carrère
Emmanuel Carrère Bataclan il terrore alla sbarra A Parigi si è aperto il processo per la strage jihadista del 13 novembre 2015 costata la vita a 130 persone Il grande scrittore ha deciso di seguirlo fino alla fine E di raccontarlo a puntate su Robinson di Emmanuel Carrère Il 24 gennaio 2016 la rete Al-Hayat Media Center, organo di propaganda ufficiale dello Stato islamico, diffonde un video di 17 minuti che incensa «i nove leoni del califfato», come li definisce. Sono ripresi in un paesaggio sassoso, probabilmente in Siria, nel corso dell’estate 2015. Sono vivi, in quel momento. Con fierezza, cinque di loro decapitano dei prigionieri con un coltello, altri tre usano un fucile d’assalto per ammazzarli. Il loro capo, Abdelhamid Abaaoud, annuncia e rivendica in anticipo un grande attentato in Europa. Alcuni mesi dopo, tutti e nove vanno a Parigi per ammazzare 130 persone, prima di essere ammazzati o ammazzarsi da soli. In realtà, avrebbero dovuto essere dieci. Ne manca uno. Non è nel video. Non è tra le fila dei leoni del califfato. Sarà, in compenso, al centro del processo: si tratta di Salah Abdeslam. Il decreto di rinvio a giudizio è una sorta di riassunto, in 348 pagine, del milione di pagine che conta tutta l’istruttoria. In teoria non sarebbe accessibile ai giornalisti, ma in pratica lo è. È un documento molto denso, ricchissimo di informazioni che ho spulciato per buona parte dell’estate. Lunghe note biografiche descrivono nel dettaglio la personalità e le azioni di ognuno dei quattordici imputati che compariranno in aula a partire dall’ 8 settembre ( altri sei saranno giudicati in contumacia). Queste quattordici persone hanno il comune il fatto di non essere morte, ma anche, è il caso di rammentarlo, di non aver ucciso. I nove che hanno ucciso, da parte loro, sono tutti morti. L’azione della giustizia è dunque estinta per quanto li riguarda, ma hanno comunque diritto alle loro note biografiche nel decreto di rinvio a giudizio. Esaminandole, quelle dei vivi e quelle dei morti, sono rimasto affascinato da un dettaglio. Una faccenda di nomi. I soldati del jihad si danno, o qualcuno dà loro, dei nomi di guerra, le kunya. La kunya comincia sempre per «Abu», che vuol dire padre, e termina con «al-qualche cosa», in base all’origine geografica o a una virtù del combattente. Per esempio, Abu Bakr al-Baghdadi, il capo dello Stato islamico, si chiamava così perché veniva da Bagdad e anche perché Abu Bakr fu il primo compagno del profeta e in seguito il primo dei cosiddetti califfi «ben guidati» che gli succedettero. È basandosi su questo prestigioso modello che un giovane ciberjihadista della città normanna di Caen, con nome e cognome così francesi che più francesi non si può, si è autobattezzato Abu Siyad al- Normandy. Quattro dei nove membri dei commando del 13 novembre, fra cui Abaaoud, erano belgi e quindi si facevano chiamare al-Belgiki; tre erano francesi ( al- Faransi) e due iracheni ( al- Iraqi). Se passiamo a guardare i quattordici che compariranno a giudizio, abbiamo la sorpresa di non trovare più neanche uno di quei nomi di guerra. Alcuni hanno dei soprannomi, ma è una cosa completamente diversa. C’è Ahmed Damani, detto «Gégé» o «Protesi». C’è Mohamed Abrini, detto «Brioche», non si sa bene se per la sua corpulenza o perché ha lavorato per breve tempo in una panetteria prima di consacrarsi alla perforazione di casseforti, che è all’origine dell’altro suo nomignolo, «Brink’s». In quale momento si sono conferiti o hanno ricevuto quei nomi di paladini del jihad che per loro dovevano essere estremamente lusinghieri? In quale momento gli altri hanno prudentemente rinunciato a rivendicarli? Era chiaro, esplicito, che il diritto di portarli veniva comprato a prezzo della vita? E che cosa pensare dell’unico che è rimasto, indeciso, sul confine fra i due gruppi? A differenza delle comparse che lo circonderanno sul banco degli imputati, Salah Abdeslam era parte integrante del commando. Doveva uccidere e venire ucciso anche lui. Senonché, all’ultimo minuto, ha avuto paura oppure la sua cintura esplosiva non ha funzionato: lo sapremo solo se parlerà ed è poco probabile che parli. Quello che sappiamo, in compenso, è che ha anche lui un alias, ma troncato: Abu Abderrahman, semplicemente. Niente particella, niente titolo di nobiltà omicida: «Abu Abderrahman al-niente di niente». Gli altri, quelli che abitano soltanto i loro poveri nomi di tutti i giorni, non era previsto che uccidessero e immagino che i loro avvocati cercheranno di spiegare che non sapevano molto bene che cosa facevano, a cosa stavano partecipando noleggiando delle automobili, acquistando le taniche di liquido per la manutenzione delle piscine che servono per fabbricare le bombe o andando a recuperare in una Parigi a ferro e fuoco, la notte del 13 novembre, il loro amico Salah che diceva di avere dei problemi. Alcuni ripeteranno probabilmente quello che ha ripetuto instancabilmente Jawad Bendaoud, il proprietario del fatiscente immobile di Saint-Denis dove Abaaoud fu scovato e ucciso dalle forze di sicurezza qualche giorno più tardi: «Mi hanno chiesto di rendere un servizio e ho reso un servizio» (la frase ha girato sui social, un intermezzo comico in quei giorni terribili; l’accogliente affittacamere è stato soprannominato «Century 21», dal nome della famosa agenzia immobiliare americana). Di tutti gli imputati, Salah Abdeslam è il solo che avrebbe dovuto uccidere, anche se non l’ha fatto. È questo che gli vale la nostra attenzione, e le impressionanti condizioni di detenzione che sono state ampiamente descritte: isolamento totale, la sua cella circondata da altre celle vuote a fare da cuscinetto, telecamere accese 24 ore su 24. Il timore non è tanto che possa evadere, quanto che possa suicidarsi, privando così il processo della sua vedette. Una vedette di basso livello: il suo avvocato belga, Sven Mary, ha fatto sensazione quando ha detto che il livello mentale del suo assistito era quello «di un posacenere vuoto». È una tesi difensiva: l’imputato è troppo cretino per preoccuparci di lui. Posacenere vuoto o meno, si può pensare che questo processo verta su ben altro che Salah Abdeslam e che soffermarsi sulla psicologia di Salah Abdeslam equivalga a concedergli troppo onore. Qualcuno, però, non l’ha pensato. È un qualcuno che ha seguito un percorso strano. Si tratta di una donna di nome Etty Mansour, che non è stata vittima degli attentati, non ha avuto vittime tra le sue conoscenze, ma che era incinta, che ha partorito qualche giorno dopo e da quella coincidenza all’apparenza poco significativa ha tratto l’oscura certezza di avere il dovere di capire qualcosa di quello che era appena successo. Senza essere giornalista, senza essere incaricata da nessun altro se non da se stessa, senza parlarne con le persone che le erano più vicine, è andata a indagare a Molenbeek, quel quartiere di Bruxelles da cui proviene una buona fetta dei jihadisti europei e in particolare tutti gli al-Belgiki del commando. Indagare a Molenbeek, indagare su Salah Abdeslam è una cosa che bisogna voler fare. Nessuno parla, tutti le chiudono subito la porta in faccia. Non è soltanto difficile, ma pericoloso. Chiunque altro avrebbe rinunciato. Etty Mansour si è ostinata. Ha girato per Molenbeek per quattro anni, ha incontrato educatori, imam, autorità comunali e poi, poco a poco, avvicinandosi per cerchi concentrici, i vicini, i compagni di classe, fino alla fidanzata di Salah Abdeslam, che ha potuto amare, lei bella, intelligente, grave, devastata, come la descrive Etty, un ragazzo immaturo, festaiolo, invidioso, manipolatore, roso dal risentimento, sì, ma non un posacenere vuoto. Nessuno è un posacenere vuoto. Quanto a me, non ho passato quattro anni a Molenbeek, ma gli ultimi quattro mesi – era molto più facile – a divorare libri per prepararmi al processo. Potrei raccomandarne parecchi; fra i tanti: i reportage di David Thomson ( Les français jihadistes, Les revenants), il saggio di Marc Weitzmann ( Un temps pour haïr). Alla vigilia della prima udienza, del momento in cui Salah Abdeslam e gli altri tredici faranno il loro ingresso dentro l’aula sotto i nostri sguardi, il complesso e sorprendente ritratto di Etty Mansour ( Convoyeur de la mort, edizioni Équateurs) mi ricorderà che noi che seguiamo questo processo non siamo venuti per giudicare – quello è il lavoro dei giudici – ma per comprendere, o almeno provarci. La posizione inversa è stata sostenuta dal nostro primo ministro dell’epoca, Manuel Valls, con queste parole indignate: «Spiegare è già giustificare». Io non credo.
1. L’accento della verità Questo processo ha un’ambizione smisurata, che non è soltanto rendere giustizia, ma esporre nel dettaglio per nove mesi, da tutte le angolazioni, dal punto di vista di tutti i protagonisti, quello che è successo quella sera. Per quattordici giorni, come prima cosa, è stato fatto il punto della situazione. Poliziotti, gendarmi, esperti sono venuti in aula a descrivere quello che hanno visto. Questi uomini agguerriti piangevano. Ora si entra in un’altra dimensione: le testimonianze delle parti civili, vale a dire i sopravvissuti e i congiunti delle vittime. Le persone a cui quella cosa là è successa. Ci sono una quindicina di testimonianze ogni giorno, di un’intensità sconvolgente. È cominciato da quattro giorni e ci sembra che vada avanti da un mese. Le udienze iniziano a mezzogiorno e mezza e finiscono in teoria alle sette e mezza di sera, spesso più tardi, e visto che è complicato uscire e poi rientrare, perché bisogna ripassare per tutti i controlli di sicurezza, in pratica non vediamo più la luce del giorno: alle 18 crediamo che siano le 3 del mattino. Il resto della vita si allontana, una cena tra amici diventa completamente fuori tema. Il presidente, di cui tutti elogiano la fermezza e il tatto, ha detto una frase poco felice, di cui si è peraltro scusato: per non ingolfare troppo il calendario delle udienze, gli avvocati delle parti civili avrebbero dovuto concertarsi, fra loro e con i loro assistiti, per «evitare le ripetizioni inutili». Cosa vorrebbe dire, evitare le ripetizioni inutili? Certo, ci sono delle cose che tutti quelli che erano nei ristoranti colpiti dagli attentatori ( perché questa settimana era dei ristoranti che ci si occupava) dicono: che in un primo momento hanno creduto di sentire dei petardi, poi di essere finiti in mezzo a un regolamento di conti, prima di comprendere quella cosa assurda e cioè che degli uomini erano usciti da una macchina con armi da guerra in pugno per ucciderli; che quando è finito, quando la macchina è ripartita, c’è stato quello che a volte viene chiamato, senza pensarci, un silenzio di morte, ma in quel caso era davvero un silenzio di morte e dopo sono cominciate le urla; che era una carneficina, un mattatoio, un groviglio di corpi con buchi enormi da cui usciva sangue, carni, organi, e quando i primi soccorsi sono arrivati si sentiva ripetere questa frase: «Occupatevi dei vivi». Ma non ci sono e non ci possono essere ripetizioni inutili, perché quegli stessi istanti ognuno li ha vissuti con la sua storia, con i suoi strascichi, con i suoi morti, e ora li racconta con le sue parole. Non sono dei fatti che vengono enumerati fino a inaridirsi, ma delle voci che si dispiegano e ognuna di queste voci ha il suo modo inconfondibile di suonare giusta, perché tutte suonano giuste. Tutte hanno l’accento della verità. La loro lingua stessa ha l’accento della verità, perché ognuno parla la sua e non, o molto raramente, quella dell’epoca, dei social, della convenzione sociale. È questo che rende questa lunga sequenza di testimonianze non solo terribile ma anche magnifica, e non è per curiosità morbosa che noi che seguiamo il processo non scambieremmo i nostri posti con qualcun altro per niente al mondo e siamo agitati all’idea di mancare per un giorno. Ho letto, sentito dire e qualche volta pensato che viviamo in una società vittimaria, che coltiva una compiacente confusione fra lo status di vittima e quello di eroe. Forse è così, ma tantissime delle vittime che ascoltiamo giorno dopo giorno a me sembrano eroi, a tutti gli effetti. Per il coraggio di cui hanno avuto bisogno per ricostruirsi, per il loro modo di vivere quell’esperienza, per la potenza del legame che li tiene annodati ai morti e ai vivi. Non so trovare un modo meno empatico di dirlo: di questi giovani – perché sono quasi tutti giovani – che si succedono sul banco dei testimoni vediamo l’anima. E ce ne sentiamo riconoscenti, spaventati, accresciuti. 2. Alice e Aristide: due testimonianze sulle prime cinquantaquattro Alice e Aristide sono fratello e sorella. Si assomigliano: capelli neri, visi scolpiti, corpi snelli, tutti e due molto belli. Lei aveva 23 anni, lui 26. Lei è una circense professionista: un’acrobata. Il suo mestiere consiste nel lanciarsi in aria all’indietro, sorretta per le mani da un portatore, ma lei lo descrive in un altro modo: «Il mio lavoro è far sognare la gente con le braccia». Aristide, invece, è un rugbista, anche lui professionista, e gioca e vive in Italia. Tutti e due sono atleti di alto livello, l’allenamento rigoroso che si impongono lascia loro poco tempo per vedersi, e allora quando si ritrovano per una cena a Parigi è una festa. Vanno al Petit Cambodge, perché i bo bun sono ottimi, ma i tavolini fuori sono pieni di gente, e dentro anche, perciò sono lì che ragionano su un piano B. È in quel momento che un auto da spacciatore, con i vetri oscurati, si ferma sul bordo del marciapiede e scende un uomo che assomiglia enormemente a uno dei migliori amici di Aristide, se non fosse che ha in mano un Kalashnikov, e lo tira su e comincia a sparare. Alice non ha visto niente, ha solo sentito i primi colpi e già si ritrova per terra. Aristide, con i suoi riflessi da rugbista, l’ha placcata giù, le si è gettato sopra e la protegge con tutto il suo corpo. È il caos, è assordante, dura qualche secondo o qualche minuto, non si sa. A un certo punto lei sente un dolore come non immaginava che potesse esistere: il suo braccio evidentemente sporgeva dal corpo di Aristide, che si prende, lui, tre di quelle pallottole mostruose. Alice dirà che lui le ha salvato la vita gettandosi su di lei, lui dirà che Alice gli ha salvato la vita riuscendo, nel caos dei primi soccorsi, dei gemiti, delle agonie, a farlo trasportare in ospedale dove gli diagnosticano uno stato di «morte imminente». Lei sarà operata due volte nella stessa notte, in due ospedali diversi, e dopo sarà operata altre cinque volte ancora: riusciranno a salvarle il braccio ma non a consentirle di recuperarne l’uso. Aristide, da parte sua, aveva ferite ai polmoni, danni cerebrali gravi e gli avevano detto che la sua gamba destra era salva nel senso che non gliel’avrebbero amputata, però che non avrebbe più potuto camminare. Qualche mese dopo aveva cercato di correre malgrado tutto, ma il dolore era tale, lo sconforto era tale che si era ritrovato per mesi nell’ospedale psichiatrico. Smettere con il rugby è stato un processo lungo e doloroso, ancora oggi non riesce ad avvicinarsi a un televisore che sta trasmettendo una partita: la tristezza lo sommerge. Anche Alice è rimasta menomata, non può più fare leva sulle braccia, «ma continuo a fare questo mestiere», dice. «Invento con i miei portatori nuovi metodi, facendo leva sui piedi. Voglio continuare a far sognare le persone. È difficile». Ripete «è difficile», c’è un silenzio, il mento le trema, la bocca si contrae e poi da quella contrazione esce fuori un sorriso miracoloso. Raccontano anche, tutti e due, quello che raccontano tutti gli altri, l’ipervigilanza, gli incubi, la perdita definitiva della spensieratezza, ma anche che sono grati al destino: la moneta è caduta dal lato giusto, sono vivi. Combattono, ma non contro qualcuno. Per loro stessi, con loro stessi, con gli altri. Non sono le chiacchiere vuote del positive thinking che stiamo ascoltando, è una verità che hanno pagato a caro prezzo per poterla dire. Aristide: «Ho cercato di capire che cosa può portare dei ragazzi a decidere di sparare su altri ragazzi, in quel modo. Non capisco, forse non c’è niente da capire. Ma sono felice che possano essere ascoltati. Sono felice che questo processo abbia luogo. Penso che la mia generazione e quella futura abbiamo un bisogno enorme di credere nella giustizia». Guarda un istante verso il banco degli imputati, alla sua sinistra, ma si rigira subito. Guarda la corte davanti a lui, dritto in piedi, sulle due gambe. Noi li guardiamo, lui e Alice. Il fatto che ci parlino è già giustizia.Quello che mi piace tanto nei concerti è guardare le facce delle persone. Quella sera le facce erano allegre, ci sentivamo tutti bene. Una bella energia. ( Clarisse) La platea era piena, c’era forse un migliaio di persone lì dentro; quando hanno cominciato a sparare siamo stati schiacciati contro le barriere. Io sono stata colpita da una pallottola, non so chi dei tre l’abbia sparata. (Aurélie) Ero di fronte al palco e ho guardato i musicisti, ho visto il loro panico, li ho visti scappare dietro le quinte. Dapprima ho pensato: è un matto che è venuto a sparare a casaccio. (Lydia) Ho cercato di dirmi che era un sequestro, che volevano prenderci in ostaggio, che se avessimo fatto quello che chiedevano sarebbe andato tutto bene, ma no, era evidente che erano là per ucciderci e ho pensato: è totalmente folle, morirò in un concerto di rednecks californiani per cui ho pagato 30,70 euro di biglietto. (Clarisse) Ho cercato di scavalcare una barriera, ma tutti spingevano, mi sono ritrovata incastrata con la gamba, ho chiesto se qualcuno aveva un coltello per tagliarmi la gamba. (Lydia) Il dolore peggiore è stato quando mi hanno calpestata. (Amandine) Ho gettato mia moglie a terra, mi sono buttato sopra di lei, si sono sdraiati tutti nella platea. Dopo le prime raffiche, ho visto un uomo atletico che sparava verso terra. Avanzava tranquillamente: uno o due passi uno sparo, uno o due passi uno sparo. Non portava un passamontagna. È quando mi sono reso conto di questo fatto, che aveva il viso scoperto, che ho capito che saremmo tutti morti. (Thibault) Mi sono ritrovata subito in una pozza di sangue caldo, non capivo come fosse possibile che ce ne fosse tanto, così in fretta. ( Amandine) Mi sono resa conto che ero stata gravemente ferita quando ho cercato di togliermi dal viso la scarpa di una persona che stava sopra di me. Mi sono accorta che la mia guancia si era completamente staccata e pendeva lungo la faccia. La mia mano destra si è ficcata dentro la mia bocca per tirare via i denti ed evitare di ingoiarli, perché rischiavo di tossire e attirare l’attenzione dei terroristi. ( Gaëlle) Ho pensato: ecco, è qui, è adesso. Questo respiro è il mio ultimo respiro. Il solo pensiero che mi rasserenava era di non avere figli. (Thibault) Avevano acceso tutte le luci e abbattevano le persone, con un certo piacere direi. (Amandine) Erano molto giovani, calmi. A un certo punto, il caricatore di uno di loro doveva essersi inceppato e un altro l’ha aiutato a rimetterlo in funzione scherzando, come se fosse con un amico alla bancarella del tiro a segno. ( Édith) Si sono fermati per ricaricare e dopo è stato meno intenso, più mirato: una pallottola alla volta, prendendo la mira. Un grido uno sparo, un pianto uno sparo, uno squillo di telefono uno sparo. (Pierre-Sylvain) Non volevo più soffrire, ho accettato l’idea che sarei morta a 32 anni, in mezzo a persone della mia età che avevano come me una bella vita davanti, uccise da persone che provavano piacere a farlo. ( Amandine) Un uomo si è alzato e ha detto: «Fermatevi, perché lo fate?». Uno dei killer lo ha abbattuto. ( Édith) L’ho sentito dire: «Questo è per vendicare i nostri fratelli in Siria, prendetevela con il vostro presidente Hollande», e io non so che cosa succede in Siria, sono lì per passare una bella serata con Nick che è l’amore della mia vita e chiedo a Nick: sei stato colpito? Sì, al ventre, gli fa male, fatica a respirare, allora gli do da respirare con la bocca e poi lui muore. (Helen) Ha fatto questo discorsetto sulla Siria come se non gliene fregasse assolutamente niente, come se fosse una lezione mandata a memoria a cui non credi, la sola cosa che li eccitava era spararci addosso. Che pena. ( Édith) Se ti muovi, muori. Facciamo finta di essere morti. I telefoni squillano senza posa, con quelle suonerie dell’iPhone così riconoscibili e che sei anni dopo mi fanno ancora gelare il sangue. ( Lydia) Quello che sparava con l’arma poggiata sull’anca ha abbassato la canna, ha preso e ha cominciato a mirare verso il basso, ogni volta verso un bersaglio preciso, uccidendoci uno per uno. Io sono stato ferito. Ho guardato Hélène: non aveva più naso, e un buco al posto dell’occhio destro. (Pierre-Sylvain) Sono riuscita a salire su in galleria, c’era un uomo dietro la fila in fondo, mi ha nascosta sotto la sedia. (Édith) Avevo una maglietta bianca, pesavo 120 chili, un bel bersaglio. Mi sono messo davanti a Édith dicendomi che forse questo l’avrebbe protetta. ( Bruno) Assistevo al massacro attraverso l’udito, raggomitolata dietro a Bruno in posizione fetale, aspettando la morte. Ho visto la porta aprirsi, in fondo alla balconata. Quell’uomo era a tre o quattro metri di distanza, calmissimo, con delle scarpe da ginnastica bianche. (Édith) Mi sono detto, ma guarda, è tutto rilassato, ha l’aria tranquilla. E poi ha alzato il braccio, ha sparato dalla galleria verso la platea. ( Bruno) E poi c’è stata quella spaventosa esplosione. Era già spaventoso, pensavo fosse impossibile che potesse esserlo ancora di più, e invece l’orrore è salito di un’altra tacca, mi sono detta che era come l’11 settembre: il primo aereo, e poi il secondo. ( Aurélie) C’erano coriandoli di carne dappertutto. Ho pensato che non c’era più latte in frigo e che non avevo pagato la mensa di mia figlia. (Édith) Ho visto delle piume che svolazzavano piano scendendo su di noi, e dopo ho capito che erano quelle della sua giacca a vento. ( Amandine) Mi ricordo il pantano vischioso in cui sguazzavamo, l’odore di polvere da sparo e di sangue, e poi l’esplosione, i pezzi del kamikaze che hanno cominciato a pioverci sopra. Ho avuto un’allucinazione, mio figlio che mi diceva: «Mamma, ti devi alzare, devi uscire». ( Gaëlle) Un amico di Bruno è venuto verso di noi, gli ha detto che la situazione si era un po’ calmata, che era il momento di fuggire. Bruno mi ha detto di venire con loro. Io gli ho detto che non riuscivo più a muovermi e lui ha detto: «Va bene, resto con te». Ed è restato con me. Una perfetta sconosciuta. Sei stato straordinario, Bruno. (Édith) Ho sentito i poliziotti che gridavano: «Evacuate quelli che riescono a muoversi», e un uomo che si è alzato ha visto la mia gamba, ha detto che gli dispiaceva molto ma non mi poteva aiutare. (Amandine) È stato quando mi sono alzato che ho visto la carneficina. La luce accecante, bianca. La pila di corpi, alta un metro, mi ha fatto pensare alle immagini del massacro della Guyana. Tutta la platea era ricoperta di corpi aggrovigliati, era impossibile distinguere i morti dai vivi. E là sopra, le volute di fumo: un’immagine impossibile da decodificare, incomprensibile. (Pierre-Sylvain) Un ragazzo mi ha aiutata ad alzarmi. Mi ha aiutata a camminare fino all’uscita e dopo è tornato nel Bataclan per aiutare altri sopravvissuti. (Aurélie) Ci hanno fatti alzare e avanzare verso l’uscita in fila indiana, le mani sulla testa, dicendoci di non guardare, ma non ho potuto fare a meno di guardare. Il lago di sangue nero e denso, enorme. Tutti quei corpi che un’ora prima bevevano e ballavano. Ho visto il corpo di una ragazza bionda, bellissima, solo che gli arti erano nel senso sbagliato. Il poliziotto mi ha detto: «Vada avanti, non c’è più niente da fare». ( Édith) Tenevo stretto il mio zaino, avevo una gran paura di perderlo perché c’era la mia tessera sanitaria dentro e ne avrei avuto bisogno quando mi sarei ritrovata all’ospedale. (Coralie) Il giovane chirurgo che mi ha indirizzato verso la sala operatoria nella speranza che potessero salvarvi la faccia ho scoperto più tardi che era un amico d’infanzia: non mi ha riconosciuta. (Gaëlle). Quando sono uscita, ho visto Bruno che stava togliendo dei pezzi di carne dai capelli di una donna che piangeva. ( Édith) Siamo entrati in tre, usciti in quattro: un bilancio positivo. ( Bruno) Più tardi, proprio prima di morire, mio padre mi ha detto: «Io e te consoliamo gli altri delle disgrazie che ci succedono» Avrei preferito non dovervi consolare. (Amandine). È il commissario della brigata anticriminalità che senza tener conto della gerarchia decide di entrare con il suo autista dentro il Bataclan sapendo che hanno pochissime chances, tutti e due, di riattraversare quelle porte in senso inverso. Hanno soltanto delle pistole contro i Kalashnikov, ma il commissario riesce ad abbattere un terrorista che si fa esplodere sul palco e il suo atto non è soltanto eroico ma efficace: fa cessare gli spari, si potrà cominciare l’evacuazione dei sopravvissuti. Simone Weil: «Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale è banale, monotono, desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso: il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante». Si parla troppo, e con troppa compiacenza, del mistero del male. Essere pronti a morire per uccidere, essere pronti a morire per salvare, qual è il mistero più grande? 3. L’Oas Contemporaneamente al processo del Bataclan si è tenuto, nella sezione penale del tribunale di Parigi, il processo di sei piccoli bianchi poveri della provincia di Marsiglia. Logan Nisin, il loro capo, preso in giro a scuola per i suoi brufoli e i suoi tic, è passato per il neonazismo ( il suo indirizzo email era klausbraun, da Klaus Barbie ed Eva Braun), poi, abbastanza stranamente, per un partito vetusto come l’Action française, prima di aprire la pagina Facebook degli «ammiratori di Anders Breivik». ( «Non lo consideravo come un terrorista», dice, «ma come un resistente».) Convinto sostenitore della teoria della Grande Sostituzione, Nisin ha creato all’indomani del 13 novembre il suo gruppuscolo, l’Oas, che sta per «Organizzazione delle armate sociali» e rende omaggio all’Oas dei tempi della Guerra d’Algeria, di cui ci si chiede, considerando la sua giovane età, come abbia potuto sentir parlare. Sul suo sito si leggono cose come: «Arabi, neri, spacciatori, migranti, delinquenti, jihadisti, se anche tu sogni di ammazzarli tutti noi abbiamo giurato di farlo, unisciti a noi». O, più sinteticamente: «Reclutiamo cacciatori di arabi». Ne ha reclutati una mezza dozzina, su cui esercitava un’autorità tanto più sorprendente considerando che lui stesso si lamenta della propria straordinaria mancanza di carisma. Un rito iniziatico che aveva imposto alle sue reclute era di «spaccare la faccia» a un arabo scelto a caso nelle vie di Marsiglia: ma il progetto era andato in fumo, perché l’arabo gli era sfuggito senza neanche sospettare del rischio che aveva corso. Malgrado questi inizi poco incoraggianti, Nisin era ambizioso e sognava di imitare dei grandi modelli: Breivik, appunto ( Norvegia, 2011, 77 morti, in maggioranza giovani socialdemocratici riuniti per un campo estivo); Dylann Roof ( Carolina del Sud, 2015, 9 afroamericani); Alexandre Bissonnette ( Canada, 2017, 6 musulmani), Brenton Tarrant ( Nuova Zelanda, 2019, 51 musulmani). Si è procurato alla bell’e meglio un fucile da caccia per farne un’arma da guerra, ha cercato di comprarne altre da dei mafiosi serbi e di procurarsi del Tatp, l’esplosivo del jihadista moderno, ha progettato un grande massacro all’uscita di una moschea e l’omicidio di alcune figure del cosiddetto islamo- gauchisme, fra cui Jean- Claude Mélenchon, che si è costituito parte civile al processo, anche se il progetto non si è mai neanche avvicinato alla fase di realizzazione. In generale, Nisin e la sua banda hanno progettato tanto e realizzato nulla. La loro indiscutibile nocività è rimasta allo stadio delle intenzioni e dell’odio telematico, cosa che non gli ha impedito di essere arrestati e processati con l’accusa di «associazione a delinquere terrorista criminale». La procuratrice che ha pronunciato la requisitoria, facendo leva sulla simultaneità del processo del Bataclan, ha sottolineato le similitudini fra il loro percorso e quello dei jihadisti contro cui combattono – «due facce», dice, «della stessa medaglia» – e la loro pericolosità, potenziale ma elevatissima. Gli avvocati dei sei imputati hanno stigmatizzato l’amalgama, la condanna preventiva che contraddice il diritto. Logan Nisin si è beccato nove anni. Questo processo insegna due cose. La prima è che il processo del Bataclan ha messo in luce le disfunzioni dei servizi di intelligence. Individui di cui era nota la radicalizzazione, addestrati in Siria, schedati come islamisti sono stati lasciati in libertà perché non avevano già commesso crimini e l’opinione pubblica non ammette più queste tergiversazioni legalistiche: bisogna colpire prima che colpiscano loro. La seconda è che la minaccia terroristica sta mutando. Il prossimo grande attentato (perché è inevitabile che ci sarà) potrebbe venire non dai jihadisti arabi, ma dai loro emuli e nemici giurati: i suprematisti bianchi.